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Cultura e scienza / Reportage

Con gli aborigeni nel Nord-Ovest dell’Australia, dov’è nato l’uomo

Grazie alle ricerche dell’Università di Perth, prende forza la teoria alternativa dell’uscita di Homo Sapiens dal Kimberley verso l’Africa. A provarlo, anche 1.200 siti di arte rupestre dove sono rappresentati gli “antichi creatori”

Tratto da Altreconomia 220 — Novembre 2019
Donny Woolagoodja, autore dell’immagine Wandjina sotto il cui sguardo sono state inaugurate le Olimpiadi di Sydney 2000, è uno degli ultimi anziani aborigeni a conoscenza dei siti e dei riti più antichi del Kimberley - © Alberto Caspani

Dieci. Nove. Otto. Roger avvia il conto alla rovescia del suo quadriposto, un agile R44 in forza alla Kas Helicopters di Derby, con la stessa drammaticità che scandiva l’attacco del primo hit di David Bowie, “Space Oddity”. Nell’anno del 50° anniversario dallo sbarco sulla Luna, la suggestione è troppo forte, ma in Australia, nel 2019, la Terra si è davvero ribaltata. Sette. Sei. Cinque. Una voce al microfono dà ordine di indossare le cuffie. Sul quadrante, spie e levette scattano sotto i tocchi del pilota. Pochi secondi e siamo già a 500 metri dal suolo, sferzati dagli implacabili venti del Kimberley. Sotto di noi, il continente non esiste più. Sparito il molo in legno di Broome, da cui affluivano le perle più preziose del mondo. Svanita la spiaggia di Cable Beach, 22 chilometri di sabbia su cui si aggirano ancora carovane di cammelli afgani e qualche nudista incallito. Impossibile distinguere il millenario baobab dove i ricordi popolari narrano fossero tenuti prigionieri gli aborigeni riottosi. Persino le rocce sedimentarie e ignee del Proterozoico, l’eone geologico che dai 2.500 ai 541 milioni di anni fa vide nascere le prime forme di vita complessa sul Pianeta, vengono inghiottite da oceani di fanghiglia su cui scorre il rizoma di fiumi evaporati.

“Questo è più o meno il paesaggio che si apriva allo sguardo dei Wandjina, gli Antichi Creatori dei nostri racconti -urla dalla postazione di testa Francis Woolagoodja, presidente della Corporazione aborigena Dambimangari-. Discesero sul nostro Pianeta quando la terra era ancora soffice e, sotto la guida del serpente cosmico Wallaganda, diedero forma e legge a tutto ciò che esiste. Ampi territori al largo della costa, un tempo abitati, giacciono però sott’acqua; al termine dell’ultima Era Glaciale, le acque sommersero almeno 2,6 milioni di chilometri quadrati dell’antica piattaforma continentale di Sahul. Saranno i suoi resti l’obiettivo delle ricerche dei prossimi anni”.

Sì, ha detto proprio così: discesero sul nostro pianeta. Le tradizioni orali dei tre popoli che abitano l’Australia Nord-occidentale, i Wororra, i Ngarinyin e i Wunambal, sono concordi nell’asserire che la vera culla d’origine della civiltà umana è la loro terra e che il Pianeta è stato creato da esseri provenienti dalla Via Lattea. Lassù, secondo Francis, vive lo Spirito Supremo, che ha il suo doppio in terra in Wungudd, serpente femmina sulle cui spire si è solidificata la crosta abitata dagli uomini. Una ricostruzione degli eventi inoppugnabile per ufologi e rettiliani, ma sulla quale l’Università del Western Australia ha voluto vederci chiaro. Forse un po’ troppo: perché il quinquennale progetto archeologico “Kimberley Visions”, avviato nel 2015 e dal costo di circa 1,5 milioni di euro, ha finito per prendere atto di quanto le popolazioni locali affermano da sempre. Una visione completamente inaspettata è scaturita dalle faglie dell’antichissima terra aborigena, lasciando incredulo l’intero mondo scientifico: Homo Sapiens ha mosso i primi passi in Australia, non in Africa. Roger!, Roger! Emergenza vertigini: torniamo coi piedi per terra.

La “Grotta dei tre fratelli” nel tratto di costa vicino alle Horizontal Falls (Cascate orizzontali). Per tradizione le figure Wandjina, gli Antichi Creatori della Terra secondo gli aborigeni del Kimberley, andrebbero ridipinte ogni anno, fra dicembre e gennaio – © Alberto Caspani

“Eravamo convinti che le pitture rupestri del Kimberley non risalissero a oltre 18mila anni fa -spiega Sven Ouzman, professore a capo del Centre for Rock Art Research and Management nell’Università del Western Australia-, e credevamo anche che le più antiche fossero quelle appartenenti allo stile ‘Gwion Gwion’, uomini danzanti dai profili sottili e inverosimilmente allungati. Grazie alla collaborazione con gli anziani aborigeni, la prima così sistematica, abbiamo appreso che molti dei 1.200 siti in esame continuano però a essere ‘rinfrescati’ con ocra rossa e altri pigmenti naturali. Sono quelli in cui appaiono i Wandjina: prendersene cura garantisce infatti il regolare ritorno delle piogge vivificatrici, oltre che il rilascio di energie benefiche. Trascurarli, o distruggerli, può comportare invece terremoti, cataclismi, o addirittura la morte di chi si macchia di questa violazione. Benché sia oggi possibile usare tecniche di datazione fossile più precise, come l’uranio-piombo o la spettrometria di massa, la loro datazione non è mai risultata più antica di 4mila anni fa. Un controsenso rispetto alle affermazioni dei nativi, per i quali le figure Wandjina sono l’impressione nella roccia dei primi abitanti della Terra. I ripetuti ritocchi possono però spiegare perché i metodi scientifici di datazione non sono adeguati a fornirci tutte le risposte. Lavorare con le anziane guide aborigene richiede un approccio molto più complesso, che spinge a incrociare dati geologici, paleoclimatici, genetici e antropologici, aprendo gradualmente a un mondo mai davvero ascoltato dalla scienza”.

“I Wandjina discesero sul nostro Pianeta quando la terra era ancora soffice e, sotto la guida del serpente cosmico Wallaganda, diedero forma e legge a tutto ciò che esiste”

Da quando i ricercatori hanno iniziato a rivolgere l’attenzione a questa delicatissima area per lo studio dell’evoluzione, ripetute scoperte hanno minato alle fondamenta la teoria dell’uscita di Homo Sapiens dall’Africa (stimata attorno ai 60/50mila anni fa). “Gli esemplari più evoluti sarebbero apparsi in Europa circa 40mila anni fa -ha dichiarato l’archeologa Elizabeth Vaughan, citando il collega della Griffith University Maxime Aubert-, ma le raffinate pitture rupestri trovate in Borneo, a Sulawesi, a Timor e in Australia lasciano invece presumere che Sapiens vivesse qui almeno da 20mila anni prima”. Nel nord del Kimberley, vicino a Drysdale River, è stato fra l’altro scoperto un sito di produzione di asce risalente almeno a 50mila anni fa. Tumuli funerari nell’estremo Sud australiano, ad Hopkin River, vengono datati 80mila anni fa, mentre saggi prelevati dalla barriera corallina del Queensland, per il geologo Jim Bowler, provano che in Australia “qualcuno” bruciava foreste per ottenere terreni coltivabili già 140mila anni fa. Il continente è stato dunque raggiunto via mare, o abitato, addirittura da Homo Erectus, vissuto fra 1,8 milioni e 100mila anni fa. Una specie forse in grado di navigare sino in Sud America: i ricercatori Pontus Skoglund e David Reich, del Dipartimento di Genetica alla Scuola di Medicina di Harvard, hanno trovato geni australoasiatici in due sperdute tribù amazzoniche del Brasile, i Surui e i Karitiana. Studiando il Dna aborigeno, sono stati inoltre rilevati livelli di varianza genetica attribuibili a ben quattro diverse specie evolutesi in Australia da Homo Erectus. Ed è proprio dal loro incrocio che sarebbe nato l’uomo moderno. Gli studi accademici raccolti da Bruce Fenton nel saggio “The Into Africa theory of human evolution”, inducono a spingersi ancora più in là: i moderni australoasiatici si sarebbero separati da Homo Erectus 4 volte prima di quanto immaginato: circa 800mila anni fa. In definitiva, il flusso migratorio di Sapiens non può che risultare invertito. Verso, e non dall’Africa.

Nell’isolatissima area di Menzies, a più di 700 chilometri a est di Perth, il lago salino di Ballard è stato trasformato da Antony Gormley nella più grande installazione all’aperto d’Australia – © Alberto Caspani

Facendosi strada su un declivio roccioso non lontano dall’area di Horizontal Falls, Francis indica uno sperone affiorante fra cespugli di Spinifex e rami di Acacia barrettiorum. Lancia un’occhiata alle spalle, mormora qualcosa a una lastra di siltite e, atteso qualche secondo in riverente ascolto, dà il via libera. Di fronte a noi si rivela a sorpresa un angusto passaggio che conduce nella prima grotta Wandjina della nostra esplorazione. Loro sono lì, immobili ma vigili, con i loro ipnotici occhi puntati sull’osservatore. Hanno fattezze antropoidi, con teste bianche ovalizzate e circondate da un’aura splendente. Tutti senza bocca. Un’apparizione straordinaria, e inquietante. È come se il loro sguardo ci stesse rimproverando per tutti i disastri che provochiamo sulla Terra. Dallo scorso anno l’asfalto si sta divorando la Gibb River Road, leggendaria pista per mandriani che taglia l’area più remota del Kimberley, lungo la quale le auto fanno ormai strage di canguri e animali selvatici. Poco più a Ovest, nella vergine Dampier Peninsula, la compagnia Squadron-Goshawk punta invece ad aprire 40mila pozzi per la ricerca del gas, minacciando di esaurire le scarse risorse idriche locali.

“Ho saputo del sito da mio zio” confida Francis, corpo massiccio e tatuaggio del creatore della pioggia sull’avambraccio sinistro. “Donny Woolagoodja è per noi giovani una guida eccezionale. Ha mostrato al mondo i Wandjina, disegnandone l’immagine per l’apertura delle Olimpiadi di Sydney 2000. Conosce migliaia di siti in tutto il Kimberley, perché suo padre Sam è stato uno degli ultimi uomini-medicina, oltre che pittore rupestre. Raggiungere le grotte, però, è sempre più difficile: molte sono rimaste abbandonate per anni, a causa del rilocamento governativo delle comunità aborigene”.
“Quand’ero ragazzo -ricorda proprio Donny, sussurrando attraverso una folta barba da saggio 71enne- sono stato costretto a lasciare Kunmunya, la missione sulla costa dove l’Istituto Frobenius condusse nel 1938 le prime importanti indagini sulla nostra cultura. Giunto a Mowanjum, tre chilometri a est di Derby, ho dato vita al più grande centro d’arte del Kimberley, nel quale trasmettere la cultura Wandjina alle nuove generazioni; molti miei coetanei, però, sono stati trasferiti ancora più lontano, ad Imintji”. È lì che abita Catherine Ningella, vedova del famoso artista Jack Dale Mengene e fra le donne oggi più impegnate nel riconoscimento dei diritti aborigeni. “Ormai è una lotta contro il tempo -osserva con amarezza-: proprio quando il governo ha iniziato a riconoscere il nostro apporto alla politica e all’economia dell’Australia, gli ultimi anziani muoiono senza aver avuto la possibilità di trasmetterci le loro conoscenze”.

La costa del Kimberley: è l’area più sensibile al mondo alle variazioni di maree provocate dalla Luna, dal Sole, ma anche dalla sommersione dell’antica piattaforma continentale di Sahul. Nell’arco della stessa giornata le acque avanzano o si ritirano per chilometri, riplasmando continuamente la superficie terrestre – © Alberto Caspani

A rivitalizzare la cultura tradizionale sta contribuendo anche Magabala Books, l’unica casa editrice aborigena di tutta l’Australia, con sede a Broome. “Lo scorso 17 settembre -spiega la direttrice Anne Moulton- siamo riusciti a far adottare ‘Dark Emu’ come testo di lettura fondamentale per studenti e politici australiani. Ha raggiunto il primo posto nella classifica per il Parliament Book Club, che sarà inaugurato nel 2020. Grazie alle testimonianze dei primi esploratori, il bestseller di Bruce Pascoe ricostruisce la misconosciuta rivoluzione agricola dei nativi australiani e delle loro tecniche di preservazione ambientale, suggerendo una nuova via di sviluppo sostenibile per contrastare il cambiamento climatico. Insieme a ‘Yorro Yorro’ e a ‘We are coming to see you’, rappresenta la pietra miliare su cui si fonda il riconoscimento degli abitanti del Kimberley come più antichi custodi della Terra”.

Nel Western Australia i risultati si vedono già: col ripristino di piante un tempo usate dagli aborigeni, quali la Themeda triandra o la Microleana stipoides, la produttività dei terreni si è sensibilmente alzata (+12.3%), guadagnando metri sulla desertificazione. L’impresa nativa Bindam Mie ha lanciato sul mercato prodotti derivati dalla lavorazione delle noci di baobab, tradizionale risorsa del Kimberley, con guadagni sino a 173 euro per un chilo di polvere. Grazie a un’integrazione sempre maggiore di guide native, attraverso il progetto “Jilinya Adventures” di Francis Woolagoodja, nell’ultimo anno sono cresciuti anche gli arrivi turistici internazionali (+9.3%, pari a 493.100 visitatori). Località remote, ma pervase ancora di sacralità iniziatica, tornano a restituire la parola a chi era stato spazzato via della storia. Un omaggio alla rivoluzione rupestre del Kimberley si trova persino nel remoto Lake Ballard. Dal suo fondo prosciugato emergono enigmatici corpi privi di spessore fisico, ma in grado di far riscoprire all’uomo il suo imprescindibile legame con la Terra. Per raggiungerli si sprofonda a piedi nudi in una massa salina, quasi collosa. Per chilometri e chilometri. Anni luce lontani da qualsiasi forma di civiltà. E scandendo alla rovescia ogni singolo passo: tre, due, uno. Sino all’inizio di un nuovo ciclo. Sino al Tempo dei Sogni.

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