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Inchiesta

Come si protegge l’arte

Il silenzio è calato sul caso del museo di Castelvecchio, a Verona, depredato di opere inestimabili, di Tintoretto e del Mantegna, di Rubens e di Pisanello. Per tutelare il patrimonio culturale però non bastano le polizze assicurative. Tomaso Montanari: "La vera difesa è rendere luoghi spazi vivi, frequentati"

Tratto da Altreconomia 179 — Febbraio 2016

Giovedì 19 novembre 2015, tra le 19 e le 21.50, è sparito un museo intero. È accaduto a quello di Castelvecchio, a Verona (museodicastelvecchio.comune.verona.it). Tre “ignoti armati” -così li ha definiti il sindaco della città, Flavio Tosi, nelle sue comunicazioni in Consiglio comunale il 26 novembre- hanno sottratto armi in pugno 17 dipinti, approfittando di un buco operativo durante il cambio tra l’unica dipendente comunale presente a fine turno (su 11 distaccati) e la “guardia particolare giurata” della compagnia Sicuritalia -che in città monitora altri 146 siti ed è subentrata ad appalto in corso dopo il fallimento della ditta precedentemente incaricata-. In 70 minuti sono state rubate opere di Jacopo Tintoretto (e Cerchia di Jacopo Tintoretto) e di Antonio Pisano detto Pisanello, di Jacopo Bellini e di Andrea Mantegna, di Giovanni Francesco Caroto e di Domenico Tintoretto, di Peter Paul Rubens, di Hans de Jode e di Giovanni Benini. Quello stesso giorno, il ministro dei Beni culturali e del turismo Dario Franceschini era a Roma, al Quirinale. La cronologia della Rete riconsegna ai posteri un suo sfortunato tweet delle 17.59, a pochi minuti da quel che Tomaso Montanari, storico dell’arte e professore di Storia dell’arte moderna all’Università degli Studi di Napoli Federico II- definisce ad Ae la “scomparsa del museo”: “Al #Quirinale con il Presidente Mattarella per l’esposizione di due opere recuperate dai Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale”.
Da quel momento, salvo un sintetico accenno al “furto di Verona” (una settimana dopo), il ministro non ha aggiunto altro. Non si è mai recato (ufficialmente) al museo per effettuare un sopralluogo. Anche perché Castelvecchio è un sito civico, e quindi non immediatamente riconducibile alle responsabilità del rappresentante del Governo.
Così l’ultimo sguardo delle cronache nazionali si è poggiato su Castelvecchio per il presunto “rimborso beffa” che la compagnia assicurativa avrebbe dovuto corrispondere a Palazzo Barbieri -la sede del Comune-. Questo, infatti, aveva stipulato una polizza assicurativa “All risk” con la compagnia Cattolica Assicurazioni (nel 2012, rinnovandone una del 2009) che riconosceva scarsissime probabilità di rischio al tipo di sinistro che invece è capitato. Con un massimo rimborsabile di 250mila euro.

Beffa o non beffa, da quel momento il silenzio pubblico è calato sulla questione della tutela e sicurezza del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese -costituito tra le altre cose da 3.847 musei, 240 aree archeologiche, 501 monumenti censiti nel 2011 dall’Istat, per il 63,8% di proprietà pubblica-, il cui rilievo non è riducibile alla ricostruzione di un “colpo” ben riuscito. O, come racconta Tosi ad Ae, “una rapina troppo fortunata”, in aperta polemica con Sicuritalia, responsabile per il sindaco di aver “commesso errori procedurali che hanno di fatto reso possibile la rapina”.
Chi ha provato a invertire la rotta è stato un gruppo di intellettuali e storici dell’arte -tra cui Salvatore Settis e Montanari-, autori di un appello steso a un mese dal “saccheggio di Verona”, volto a scardinare “la scontata anticamera dell’indifferenza più perniciosa”, il “silenzio”.
Non ha mai ricevuto risposta. “Nessuno aveva chiesto al ministro i bollettini sulle indagini, o il racconto dell’azione giudiziaria -spiega Tomaso Montanari-, quanto piuttosto la riproposizione del punto politico. Il riserbo dell’indagine non è incompatibile con una narrazione in grado di cucire il patrimonio al discorso pubblico, soprattutto in un momento come questo”.
Montanari ha in mente un modello di “sicurezza” del patrimonio che illustra citando un caso specifico, quello del Museo nazionale del Prado di Madrid. Nella stessa fascia oraria del furto di Verona, cioè a ridosso della chiusura, il Prado non solo è aperto (come tutti i giorni), ma è persino gratuito (si tengano a mente le dovute proporzioni: Castelvecchio nel 2014 ha contato 129.800 visitatori e “introiti” per 322.266,50 euro; il Prado è stato attraversato da 2,5 milioni di persone). 

“I musei d’Italia sono privi di mezzi e personale -spiega-, il patrimonio è abbandonato a se stesso ed è scarsamente incentivata la frequentazione dei cittadini. Per come non è difeso, mi stupisco che fatti analoghi a quelli di Verona non accadano tutti i giorni. La vera difesa dei musei è renderli vivi, frequentati”. Montanari la definisce “difesa civile, morale, intellettuale”. Per questo diffusa. Da qui si sarebbe atteso che Franceschini “mettesse il naso nel museo depredato”, accettando di prender parte anche a qualche “funerale”, al di là delle festanti riaperture delle domus di Pompei.
“Ma un’assicurazione non risolve il problema -precisa Montanari- perché Tintoretto, Rubens, Pisanello non li potrà certo restituire un risarcimento economico. Il Colosseo non è assicurato, gli Uffizi non sono assicurati. È una scelta storica derivata dall’insufficienza di risorse quella che ha visto alcuni enti locali, non tutti, investire risorse in questa direzione visti i tagli durissimi ai trasferimenti da parte dello Stato”.

Guardando oltre Verona ci si accorge della mancanza diffusa di un monitoraggio della situazione attuale, dei musei statali e di quelli civici. Come si tutelano, che strumenti adottano, quali risorse investono.
Vincenzo Santoro è responsabile del Dipartimento cultura e turismo dell’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani. A precisa domanda riconosce che non solo non esistono “linee guida” a disposizione degli enti locali (“I Comuni fanno quello che gli pare -racconta-, e noi non siamo il ministero, che ha potere di imporre le direttive”), ma nemmeno un censimento delle prassi utilizzate.
Il Comune di Milano, ad esempio, ha recentemente pubblicato un bando “All Risks Beni Culturali” dalla durata triennale (31/12/2015-31/12/2018). “Si assicura -si legge nel capitolato pubblicato sul portale dell’ente- a ‘primo rischio assoluto’ 60 milioni di euro per evento ed anno assicurativo per opere d’arte e di interesse storico artistico […]”. Riguarda le “ubicazioni” del Museo delle Culture, del Museo del Novecento, di Palazzo Morando, di Palazzo Marino, fino ai Musei del Castello Sforzesco. Ad aggiudicarsi la gara d’appalto con un premio lordo complessivo per il triennio da 378mila euro è stata la compagnia “dei Lloyd’s” -come si definisce-, che dal 1990 opera in Italia attraverso una società con sede legale a Londra.
Tra la città di Torino e i suoi “civici”, prima che la gestione passasse dal Comune alla Fondazione Torino Musei, il rapporto era diverso rispetto a Milano. Lo racconta Daniele Jalla, ex direttore dei Musei cittadini e oggi presidente della rappresentanza italiana dell’International Council of Museums (ICOM) nonché membro del cda del Polo Reale di Torino dal 23 dicembre 2015, proprio dietro nomina del ministro Franceschini. “Oggi le assicurazioni ‘statiche’ per i musei civici rappresentano uno spreco -sostiene Jalla-, perché si spendono soldi per assicurare opere a un valore che non serve nemmeno a riparare i rischi. La tradizione mondiale vuole che le opere dei musei non siano assicurate proprio perché i musei sono luoghi sicuri. Le assicurazioni operano nel momento in cui l’opera esce dal museo e va in mostra.
In teoria il gestore dovrebbe assicurare l’assenza di rischi così da non rendere necessaria un’assicurazione permanente. Questo è il modello generale: se dovessimo assicurare tutto il patrimonio per il valore che ha finiremmo per avere una spesa non immaginabile”. Per Jalla dunque, l’assicurazione è l’ultima ratio “quando non si è in grado di eliminare i rischi alla radice o moderarli fino al punto in cui questi vengano ridotti”.
Il presidente di ICOM Italia non tace l’oggettiva carenza di informazioni di contesto: “Non esistono dati generali, sia perché non sono stati raccolti sia perché non sarebbero divulgabili. La situazione è molto varia, ed è sicuramente toccata dal taglio dei fondi. Ma non tutte le amministrazioni hanno la stessa sensibilità verso la sicurezza”. Per alimentarla -racconta Jalla- ICOM, il ministero dei Beni culturali e i carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale (costituito il 3 maggio 1969, composto da un organico di 270 militari in tutto il Paese e custode di una “Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti” informatizzata che quest’anno ha raggiunto 5,8 milioni di oggetti censiti e 600mila immagini), hanno curato la stesura di una pubblicazione intitolata “La sicurezza anticrimine nei musei”, che è stata presentata e diffusa proprio a febbraio.
Il contenitore di modelli, “significativi esempi di eventi criminosi” (23 dal 1972 al 2014, dal danneggiamento de “La Pietà” di Michelangelo a San Pietro al furto di tre dipinti su tavola di un anonimo cremonese al Castello Sforzesco di Milano) e proposte operative è aperto da una prefazione a cura di Dario Franceschini, al quale Jalla -che pure “assolve” il ministro dalla critica mossa nell’appello firmato anche da Settis e Montanari- chiede di “farsi promotore insieme alle Regioni e ai Comuni di una campagna nazionale e unitaria di verifica congiunta della situazione”.

Nelle oltre 100 pagine del volume c’è un passaggio sul volontariato -rispetto al quale ICOM “si è sempre dichiarata favorevole”-, che “le amministrazioni pubbliche tendono più spesso ad utilizzare […] con una visione distorta, motivata solo da esigenze di risparmio economico, in sostituzione, piuttosto che affiancamento del personale professionale stabile”. 
Sono parole familiari a Leonardo Bison, giovane archeologo che insieme ad altri colleghi anima un blog che si chiama proprio “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” (miriconosci.wordpress.com).
A fine dicembre, il MiBact ha pubblicato un bando per l’assunzione di 29 volontari del servizio civile Nazionale per il progetto “Archeologia in Cammino”, in occasione del Giubileo. “È previsto l’impiego dei volontari in mansioni che dovrebbero essere affidate ad archeologi, archivisti e storici dell’arte, ovvero a professionisti retribuiti -spiega Bison-: parliamo di documentazione e catalogazione, redazione di schede scientifiche, ricerche archivistiche, che si aggiungono alla vigilanza sul patrimonio museale e archeologico e funzioni di accoglienza”. I promotori dell’iniziativa -che hanno chiesto al ministero il ritiro del bando anche attraverso una riuscita campagna sui social network- sono preoccupati dal “pericoloso precedente”: “Se il ministero preposto alla tutela del patrimonio culturale italiano legittima il ricorso al volontariato, perché un museo civico non dovrebbe farlo?”.

Bison vorrebbe rispondere con le sue competenze alla “Chiamata alle arti”, espressione che il MiBact enfatizza sul portale dell’Art Bonus (http://artbonus.gov.it), quel meccanismo che “consente un credito di imposta del 65% della donazione a chi effettua erogazioni liberali a sostegno del patrimonio culturale pubblico italiano” (confermato dalla Legge di Stabilità 2016). “Scopri chi ha contribuito a rendere l’Italia più bella”, si legge in testa all’elenco dei 1.664 “mecenati” censiti a metà gennaio. Per Salvatore Settis si tratta di una “iniziativa positiva che prima non c’era” ma che è ancora troppo ridotta a causa dell’infedeltà fiscale diffusa, nonostante il battage mediatico sottolinei i risultati. “Al momento, in Italia, ha fruttato 34 milioni di euro -aggiunge Montanari- mentre in Francia, dove è resa agevole anche la donazione di 50 centesimi, ogni anno il mecenatismo popolare raccoglie un miliardo di euro. È un metodo che deve funzionare meglio, chiarito però che è lo Stato a dover assicurare il necessario per la sopravvivenza, cosa che non potrà certamente assicurare l’integrativo, residuale e sussidiario Art Bonus”.  —

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