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Come cambia la cooperazione

Dopo quasi 30 anni, l’11 agosto è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la nuova legge chiamata a governare il settore dell’aiuto allo sviluppo: previsto anche l’ingresso dei privati. Nel dossier di "Altreconomia", la riforma letta ascoltando il punto di vista di 10 Ong —

Tratto da Altreconomia 163 — Settembre 2014

I nomi delle organizzazioni non governative (Ong) sono in realtà acronimi e nascondono parole ricche di ideali: dalla “cooperazione rurale” (ACRA), allo “sviluppo dei Paesi emergenti” (COSPE), passando per l’idea di “coordinamento” (COSV). In Italia, le Ong riconosciute sono 232, per un “fatturato” anno stimabile in circa mezzo miliardo di euro. Tra queste ce ne sono molte che hanno attraversato gli anni del boom economico e della decolonizzazione, come Mani Tese -che è nata nel 1964, e quest’anno compie 50 anni- e COOPI -che nel 2015 festeggerà lo stesso traguardo-, e continuano ad operare nei Paesi del Sud del mondo anche nel Ventunesimo secolo, negli anni della crisi figlia della globalizzazione. A quasi 30 anni dall’approvazione della legge che governa il settore, la 49 del 1987, l’Italia ha scelto di riformarlo con un disegno di legge intitolato “Disciplina generale sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo”. Mentre ne scriviamo, il testo attende l’approvazione del Senato, dopo un primo passaggio a palazzo Madama e il voto favorevole della Camera dei deputati a fine luglio.
L’efficacia della “riforma” verrà misurata nei successivi 6 mesi, quando arriveranno anche i decreti attuativi, ma è certo che andrà a modificare i rapporti tra organizzazioni non governative e ministero degli Esteri, offrendo una lettura aggiornata della società italiana e di quei Paesi del Sud in cui operano le Ong.
Per comprendere “come cambia la cooperazione” ne abbiamo intervistate dieci, scelte nell’universo delle realtà che operano in Italia per rappresentarne la complessità: esistono esperienze affiliate a grandi organizzazioni internazionali e altre figlie del volontariato, Ong che gestiscono dai due a decine di milioni di euro all’anno, realtà che operano principalmente nell’ambito degli interventi umanitari in situazioni di emergenza e altre attive solo nello sviluppo, organizzazioni che agiscono utilizzando quasi esclusivamente finanziamenti pubblici e soggetti cui i privati affidano le proprie donazioni. 

Tutti i nostri interlocutori –ACRA, Action Aid, CESVI, COOPI, COSPE, COSV, Mani Tese, ICEI, Istituto Oikos, Soleterre, in ordine alfabetico- ci assicurano che si tratta di una riforma necessaria (la legge in vigore è nata quando la Germania aveva ancora un Ovest e un Est, ed esisteva l’Unione della Repubbliche Socialiste Sovietiche). È importante, ad esempio, che sia prevista la costituzione di un’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (all’articolo 17), un soggetto di diritto pubblico che dipende dal ministero degli Esteri ma ha un’autonoma personalità giuridica, anche se la sua efficacia dipenderà dai decreti attuativi. “Un passaggio importante sarà quello relativo alla nomina del direttore dell’Agenzia -segnala Fabio Laurenzi, presidente del COSPE, Ong nata a Firenze nel 1983-: c’è il rischio che il prescelto arrivi dal mondo delle banche internazionali, o dalle imprese”. “Un dato importante -aggiunge Cinzia Giudici, presidente di COSV, Ong nata nel 1968- è legato alla continuità nelle funzioni: finora la cooperazione è stata gestita dai diplomatici, che si fermano in un ruolo non più di 4 anni. Tra un direttore generale e un altro, il rischio è che cambino le priorità, che manchino strategie, come analizza anche l’OCSE (vedi box a p. 13, ndr). Siamo convinti che una struttura ad hoc possa garantire maggiore coerenza negli interventi”. “La legge 49/87 era molto orientata alla cooperazione attraverso le Ong, mentre il testo approvato apre ad altri interlocutori. Il nostro mondo, quello della società civile internazionale, è solo uno spicchio” spiega Elias Gerovasi, responsabile dell’area Cooperazione per Mani Tese e animatore del blog Info cooperazione (www.info-cooperazione.it).
La legge prevede infatti la soppressione del “registro delle Ong idonee” (anche se Giangi Milesi, presidente della bergamasca CESVI, assicura assicura che “questo disposto verrà rivisto per garantire che il riconoscimento delle Ong non venga meno”), aprendo le attività di cooperazione ad altri attori, e in particolare alle imprese private. Per riflettere su questo aspetto, a metà luglio, a Firenze, il vice ministro degli Esteri Lapo Pistelli ha promosso un seminario sul “nuovo ruolo” del settore privato nella cooperazione: tra i soggetti invitati a intervenire c’era Enel ma -ed è indicativo- nessuna Ong italiana.
Per fortuna Jesse Griffiths, direttore di Eurodad (network di organizzazioni europee che lavorano su debt&development, www.eurodad.org), ha ricordato che il modo migliore per far contribuire le imprese allo “sviluppo di un Paese” sia fare in modo che paghi le tasse.
Le organizzazioni non governative italiane non hanno paura del “privato”, con cui già si misurano sui bandi promossi dalla Commissione europea, ad esempio quelli relativi ad Energy Facility, infrastrutture energetiche, vincendoli. Invitano però a riflettere sul ruolo che le imprese possono assumere nel contesto di cooperazione internazionale: “In molti paper, alla parola development, sviluppo, ormai viene sostituita growth, crescita” spiega Gerovasi di Mani Tese. “Anche l’impresa può creare sviluppo, in particolare però quella locale, dei Paesi del Sud del mondo. Sviluppo che risponde a una dinamica positiva e favorevole di mercato. In questo senso, anche il commercio estero può essere cooperazione, quando punta allo sviluppo del partner, e non solo a un risultato economico immediato” aggiunge Claudio Ceravolo, presidente di COOPI. Secondo Giangi Milesi, del CESVI, “a partire dal testo di legge può nascere un’idea di partnership  positiva, in cui le Ong non abbiano un ruolo subalterno, ma siano chiamate a garantire la sostenibilità sociale ed ambientale di attività in cui le imprese operano per garantire la sostenibilità economica”. Anche Damiano Rizzi, presidente di Soleterre, nata nel 2002, si dice “non scandalizzato” dall’ingresso del privato nella cooperazione, a patto che ciò porti le imprese ad assumere un comportamento coerente in materia di diritti umani: “La tutela dei diritti fondamentali non è solo delle Ong, non vogliamo essere l’ennesima ‘delega in bianco’. Siccome le imprese fanno business, e non lavorano per applicare i diritti umani, vorrei che quelle che si approcciano alla cooperazione fossero obbligate ad inserire questo principio nel proprio statuto”. Rossella Rossi, presidente di Oikos, è convinta che una collaborazione tra attori diversi sia “sana, perché permetterebbe a mondi chiusi -le imprese, le Ong- di aprirsi a visioni più complesse”. “Nel Sud -prosegue la Rossi- il ruolo dell’imprenditoria locale è fondamentale e vitale, ma quelle del Nord difficilmente potrebbero gestire come capofila un progetto di sviluppo. È un altro mestiere, anche perché un’impresa non avrebbe interesse, ad esempio, a realizzare ‘a dono’ un acquedotto del costo di 2 milioni di euro”.            
Diametralmente opposto il punto di vista di Laurenzi del COSPE, secondo cui “più che un problema legato al privato in sé, c’è un problema di coerenza di politiche: oggi passa il messaggio che l’ingresso dell’impresa tra gli attori della cooperazione è inevitabile, ma per anni abbiamo discusso di una necessaria coerenza nell’azione verso l’estero del nostro Paese, come un confronto tra diversi. A noi, purtroppo, non è dato sedere a negoziare su altri tavoli”. E la nuova legge laddove riconosce che “i soggetti con finalità di lucro” diventano “soggetti del sistema della cooperazione allo sviluppo” (articolo 22) si limita a porre “condizioni deboli”, cioè l’adesione agli standard sulla responsabilità sociale d’impresa, alle clausole ambientali e alle norme per i diritti umani. Anche Alfredo Somoza, presidente di ICEI, è contrario a una norma che vede le imprese come attori di cooperazione: “Siamo stati tra i primi, nel 2001, ad avviare partenariati, in un progetto di turismo che ha coinvolto un tour operator, Cts. Erano interessati a un progetto che avrebbe prodotto un pacchetto turistico che avrebbero potuto commercializzare. Ciò significa -a mio avviso- che il privato può essere un ottimo partner, specie per il trasferimento di conoscenza e competenze, ma l’obiettivo finale di un’azione di sviluppo non può essere quello commerciale”. Tra gli aspetti che rendono “discutibile che le ‘donazioni’ (di finanziatori istituzionali) vadano alle imprese”, secondo Nicola Morganti, da poco presidente di ACRA dopo 22 anni in Africa come cooperante, “è il rischio di una distorsione del mercato, tra un’impresa straniera che ha avuto fondi pubblici, e una locale che non può competere con una call for proposal europea”. Secondo Morganti, tuttavia, è “accettabile nei casi in cui è necessario sovvenzionare in parte l’investimento, quando si prospetta una redditività nulla o molto bassa, perché in zone depresse certe cose non si realizzerebbero mai senza un aiuto iniziale”.         

Resta un altro nodo, importante, ed è quello legato ai fondi a disposizione, poco più di 2,4 miliardi di euro nel 2013. “Se l’ambizione è quella di aver un numero maggiore di ‘attori di cooperazione’, dovremmo necessariamente chiedere un’espansione delle risorse a disposizione, che non possono fermarsi allo 0,16 del prodotto interno lordo” spiega Luca De Fraia, segretario generale aggiunto di Action Aid, realtà italiana afferente a una federazione di organizzazioni presenti in circa 40 Paesi del mondo, con sede centrale in Sudafrica. Queste risorse, secondo De Fraia, non possono essere quelle di Cassa depositi e prestiti (CDP), che un emendamento votato in commissione Esteri alla Camera vorrebbe come “istituzione finanziaria per lo sviluppo”: “CDP è un soggetto privato, e la sua contabilità non è quella dello Stato. Inoltre, utilizza risorse private, quelle dei cittadini. In ogni caso, le risorse impiegate non potrebbero mai essere contabilizzate come ‘aiuto pubblico allo sviluppo’, aprendo le porte ad operazioni che potrebbero anche sfuggire alla tracciabilità delle azioni di sviluppo”. Quelle di De Fraia sono preoccupazioni legittime: CDP controlla SACE e SIMEST, due società che si occupano di relazioni tra le imprese italiane e l’estero, assicurando gli investimenti esteri e favorendone l’internazionalizzazione. Si corre, cioè, il rischio di mischiare tutto, anche perché -fa notare Gerovasi di Mani Tese- “l’idea di fondo che muove questa riforma è fare in modo che le imprese contribuiscano in qualche modo alla ‘cassa’, garantendo risorse utili per la cooperazione. Il policy making ha un unico obiettivo: investire il meno possibile”.
È per questo che le parole di Paolo Comoglio, direttore di COSV, suonano come un monito: “Il finanziamento pubblico non è un’opzione, è un impegno richiesto. Nella mentalità italiana, purtroppo, si tratta ancora di beneficenza, che faccio solo se ho risorse”. 
Poco rigorosa era, fino al 2013, anche la gestione del finanziamento alle Ong da parte della Farnesina: non prevedeva “bandi”, ma procedure aperte. “Si poteva sottoporre i progetti in ogni momento, ma l’iter di valutazione era molto fumoso e incerto” racconta Elias Gerovasi È per questo che i maggiori finanziatori di molte organizzazioni italiane sono le agenzie dell’Unione europea e quelle di Paesi Ue ed extra-Ue. “Il 75% delle nostre risorse arrivano dall’estero” conferma Giangi Milesi, presidente di CESVI, Ong che collabora (anche) con agenzie ONU.

Per quanto riguarda l’Italia, nel 2014 il ministero degli Esteri ha destinato ai nuovi progetti delle Ong appena 15 milioni di euro. Nel 2013, evidenzia Action Aid nel rapporto “L’Italia e la lotta alla povertà nel mondo” (Carocci), avevano avuto a disposizione “ben” 38,9 milioni di euro.
Perché i “rivoli” attraverso i quali la cooperazione italiana spende il proprio impegno per la cooperazione sono, per lo più, altri. Nel 2012, il 57% del totale è stato veicolato attraverso le istituzione europee.
Il contributo versato all’European Commission’s Humanitarian aid and Civil Protection department (ECHO), ad esempio, era pari a 171,8 milioni di euro (e oltre 730 tra il 2008 e il 2012).
Più in generale, come evidenzia il rapporto di Action Aid, il 77% dell’aiuto italiano è veicolato attraverso canali multilaterali, che significa banche e fondi internazionali di sviluppo, gli aiuti allo sviluppo forniti dall’Ue e il sostegno al bilancio e alle attività di istituzioni internazionali, come le agenzie delle Nazioni Unite.
In parte, questi soldi tornano anche alle Ong italiane. COOPI, ad esempio, è tra le prime organizzazioni europee destinatarie di risorse ECHO, undicesima nella classifica generale tra il 2008 e il 2012, quando ha firmato 73 contratti per oltre 62 milioni di euro. Questa forma di accesso alle risorse può rendere molto vulnerabile un’organizzazione: “Nel 2014, il bilancio della Commissione europea ha visto ridurre il budget per gli aiuti umanitari (vedi grafico a p. 12, ndr), sceso sotto il miliardo di euro. C’è il rischio di un ridimensionamento strutturale con il ‘multi-annual financial framework’ 2014-2020” racconta Ceravolo, presidente COOPI. Inoltre, queste risorse sono volatili: l’esplosione dell’emergenza in Siria, ad esempio, ha portato una contrazione significativa delle risorse destinate alla Somalia. A noi, nel 2013, sono arrivati 8 milioni di euro in meno, solo per gli interventi in questo Paese”.  
Chi presta attenzione anche ai donatori privati, invece, ha a che fare con la crisi: “Il loro numero, per noi circa 42mila, non cala in termini assoluti -spiega Giangi Milesi, presidente di CESVI-, ma è il valore medio delle donazioni a scendere”. 

In un mondo d’incertezze, così, le Ong italiane riflettono sull’organizzazione e il controllo di gestione, sulla difficoltà di legare a sé i migliori professionisti del settore con contratti a tempo indeterminato quando “si lavora per progetti”, ma per certa pubblicistica è più facile attaccare (proprio) le organizzazioni non governative, i presunti sprechi e la mancanza di trasparenza, spesso senza aver chiara nemmeno la differenza tra cooperanti e volontari.
Chi concentra la propria attenzione sul personale espatriato delle Ong, considerati “principi e principesse”, omette di considerare -ad esempio- che chi riceve finanziamenti UE non può destinare che il 7% del totale alle spese di funzionamento della struttura, e che -in un Paese in cui il falso in bilancio è depenalizzato, e chi non deposita il bilancio rischia al più una sanzione amministrativa di meno di 2mila euro- ogni “contratto” è sottoposto a severi audit esterni.
Dimentica, anche, che le Ong sono “imprese” che creano occupazione (nel Nord e nel Sud del mondo, vedi tabella a p. 13), e che come molte altre “aziende” affrontano il problema della stretta del credito, dato che -sempre- l’istituzione pubblica anticipa solo una parte del finanziamento accordato, è c’è bisogno di liquidità per realizzare gli interventi e pagare il personale.
Inoltre, spesso le stesse organizzazioni non governative, da sole, sono stato l’unico soggetto a puntare l’accento sui limiti dell’aiuto allo sviluppo, ad esempio sul meccanismo perverso degli aiuti “legati”, per cui un Paese impone a chi riceve il finanziamento di investire quelle risorse nell’acquisto di beni e servizi offerti da imprese del “donatore”. Dal 2008 al 2011, al netto delle operazioni di cancellazione del debito, pure contabilizzate alla voce “cooperazione”, l’aiuto legato ha toccato il 71% dell’aiuto “bilaterale” gestito dall’Italia.
Per molti, però, è più facile sparare addosso alle Ong. Perché l’equazione “donazione = spreco” fa notizia ed è facile da vendere, mentre una lettura più complessa è faticosa. Perché si parla ancora di “volontari”, e non ci si rende conto che molti, in Italia, hanno scelto di mettere le proprie competenze -in ambito agronomico, ingegneristico, gestionale, amministrativo, medico, ma non solo- al servizio delle attività di cooperazione in un Paese del Sud, lavorando come “espatriato”.  Una lettura superficiale non permette di leggere la “complessità” del mondo delle Ong italiane, che spesso hanno visioni “complementari”, come dimostra il “caso” del ruolo del privato.
C’è, ad esempio, chi -pur gestendo ogni anno un budget di oltre 20 milioni di euro- ritiene di non poter “competere” con le maggiori organizzazioni non governative europee, corazzate da 100-200 milioni di euro di fatturato, anche perché alcuni bandi della Commissione europea hanno ormai una “taglia” -fino a 10 milioni di euro- difficile da sostenere, tenendo conto che il finanziamento concesso -a parte nei casi di interventi d’emergenza- copre il 70% del budget (e impegna la Ong a sostenere il mancante 30% tramite donazioni). Altre realtà, quelle con un budget tra i 4 e gli 8 milioni di euro, evidenziano invece come queste politiche dell’UE rischiano di mettere a rischio la “biodiversità” delle organizzazioni non governative, cioè spingere alcune Ong a stringere partnership o a vere e proprie fusioni: “Non abbiamo più spazio; l’Ue ha deciso che il numero degli attori della cooperazione dev’essere ridotto. Lo fanno pubblicando progetti con budget troppo elevato, e spesso diventa anche una questione di economie di scala: per chi ha un solo progetto, è più difficile ‘scaricare’ i costi di amministrazione e di struttura riconosciuti, che sono molto ridotti, meno del 10% del budget” spiega la presidente di Oikos, che aggiunge: “Siamo nati, alla fine degli anni Novanta, da un gruppo di tecnici, per mettere competenze scientifiche in campo ambientale al servizio dei Paesi del Sud del mondo. Oggi crediamo che questa visione possa ‘riconoscerci un futuro’: la cooperazione è sempre più un’azione per portare competenze, e non aiuti”.
Visione condivisa da quasi tutti gli attori intervistati, e che riportano all’idea alla base della “co-operazione, operare insieme, che all’inizio degli anni Sessanta portò padre Vincenzo Barbieri, fondatore di COOPI, ad abbandonare una visione assistenzialista, tipica dell’aiuto missionario” spiega Ceravolo. Cinquant’anni dopo, l’evoluzione di questo processo è nell’idea di partenariato, in cui (anche) gli attori del Sud del mondo diventano attori della cooperazione. Un esempio lo fa Somoza di ICEI: “Nei prossimi mesi, probabilmente, ICEI do Brasil, una realtà autonoma dalla nostra, sarà nostro partner in Mozambico, in un progetto che verrà sostenuto dall’Ue”. Cambia anche il modo di operare, che non è più focalizzato sui progetti: “In ACRA non esistono più desk ‘geografici’ ma ‘tematici’, e programmi, gestiti in modo imprenditoriale da specialisti esperti in un determinato ambito, come Water & Sanitation o cibo” spiega il presidente, Nicola Morganti.
Cambiamenti indotti (anche) da un’evoluzione delle società nei Paesi in via di sviluppo, che oggi fa sì -ad esempio- che lo staff locale impiegato nei progetti svolga anche ruoli tecnici e di coordinamento, e non solo di assistenza agli espatriati (expat) italiani. L’esigenza primaria resta quella di rispondere alle richieste dei partner: “La cooperazione è una forma di restituzione, rispetto a un debito morale ed etico nei confronti di molti Paesi del Sud del mondo” ha spiegato Damiano Rizzi di Soleterre. Per questo, ad esempio, la sua organizzazione ha scelto di non andare (solo) “dove ti mandano i fondi”, e continua ad occuparsi di Centro America, di Paesi ormai scomparsi dalla (esigua) lista dei “prioritari” (una ventina, nel 2014) del ministero degli Esteri, e in Ucraina. In prima fila, anche, nelle attività di denuncia. Le Ong conoscono ed interpretano le dinamiche del territorio. Come e più della diplomazia. —

Italia inadempiente
Ogni cinque anni una struttura dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il Comitato di aiuto allo sviluppo (DAC), realizza un’analisi strategica sulla struttura e l’efficacia degli interventi di cooperazione realizzati dai Paesi membri. L’ultima peer review relativa all’Italia ha prodotto una serie di raccomandazioni. Tra queste vi sono l’esigenza di:
1. garantire una visione strategica di medio-termine, orientata ai risultati, per le azioni di cooperazione allo sviluppo, che aiuterebbe a far chiarezza al governo italiano e ai partner nelle aree prioritarie d’intervento;
2. aumentare il rapporto tra aiuto pubblico allo sviluppo e PIL, sceso dallo 0,22% nel 2008 allo 0,14 nel 2012 (e 0,16 nel 2013). Il target europeo -che l’Italia non ha raggiunto- era 0,56% nel 2010. Irraggiungibile anche lo 0,7% del PIL nel 2015;
3. stabilire un piano di valutazione degli interventi nel medio periodo basato su indicatori chiari, per poter usare la “valutazione” come criterio di governo degli interventi;
4. migliorare la qualità dei finanziamenti concessi, in particolare aumentando la “prevedibilità” dei finanziamenti rivolti alle organizzazioni non governative;
5. individuare un numero limitato di aree di crisi dove poter assicurare interventi in grado di promuovere le aspirazioni allo sviluppo e valorizzare gli sforzi dei Paesi in via di sviluppo.
Nel 2009, il nostro Paese era stato oggetto di 17 raccomandazioni. 10 sono state solo parzialmente realizzate, 4 non realizzate affatto e solo 3 pienamente realizzate.

Non dimentichiamo Giovanni
Giovanni Lo Porto (nella foto) è un cooperante italiano che il 19 gennaio 2012, a 36 anni, è stato rapito a Multan, nella provincia del Punjab, in Pakistan. Lavorava come capo progetto per l’Ong tedesca Welt Hunger Hilfe, dopo aver prestato servizio anche in Birmania per CESVI, subito dopo il ciclone Nargis, nel 2008. A due anni e mezzo dal suo rapimento, il ministero degli Esteri mantiene riserbo sulla sorte dell’operatore umanitario originario di Palermo.

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