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Economia / Approfondimento

Coca-Cola e quella sanzione fiscale da 18 miliardi di dollari che non vuole pagare

© Vitalii Khodzinskyi - Unsplash

Nel 2020 la Corte tributaria degli Stati Uniti ha condannato la multinazionale al pagamento di una multa miliardaria per aver trasferito strumentalmente parte dei profitti della casa madre nelle filiali domiciliate in paradisi fiscali esteri. Cinque anni dopo i suoi dirigenti sono così sicuri dell’appoggio dell’amministrazione Trump da non citare l’eventuale versamento nella reportistica rivolta agli investitori. Matthew Gardner dell’Institute on taxation and economic policy spiega bene perché è uno scandalo

Sono passati cinque anni da quando la Corte tributaria degli Stati Uniti ha stabilito che la Coca-Cola corporation ha frodato i contribuenti statunitensi per miliardi di dollari, nascondendo i propri profitti in paradisi fiscali esteri. Cinque anni dopo, la sanzione fiscale che grava su Coca-Cola è (per usare un’espressione gergale) una vera e propria “bomba”. L’azienda stima ora che la sentenza della Corte potrebbe costarle fino a 18 miliardi di dollari.

Ma i dirigenti di Coca-Cola, che apparentemente puntano sul rapido smantellamento dell’Internal revenue service (Irs, l’agenzia tributaria federale) da parte dell’amministrazione Trump -e forse incoraggiati dall’applauso riservato dal presidente per la decisione dell’azienda di utilizzare zucchero di canna in alcuni prodotti Coca-Cola statunitensi-, stanno comunicando ai loro azionisti che ritengono che l’azienda dovrà pagare appena il 3% di 18 miliardi di dollari. Il che significa che i contribuenti statunitensi dovranno farsi carico del restante 97%. 

Ne siamo al corrente perché le aziende sono tenute, nelle loro relazioni annuali agli azionisti, a divulgare una dichiarazione delle “posizioni fiscali non riconosciute” (Uncertain tax position, Utp). La dichiarazione Utp è una sorta di confessione per le aziende i cui dirigenti operano nelle zone grigie della normativa fiscale: le società che devono affrontare accordi fiscali multimiliardari rivelano tali importi come parte delle loro Utp. Tuttavia, nonostante il calcolo della stessa Coca-Cola preveda un carico fiscale fino a 18 miliardi di dollari, è inutile cercare questo importo nel suo conteggio. Al 30 giugno, infatti, la società ha affermato che il suo Utp relativo alla decisione del Tribunale tributario è di soli 493 milioni di dollari, come detto il 3% scarso della sanzione complessiva.   

Dare agli azionisti un “falso senso di sicurezza”, come lo descrive un analista, non è il modo in cui dovrebbero funzionare le informative finanziarie. Ma per chiunque legga i giornali, la fiducia dell’azienda in una risoluzione favorevole della sua controversia fiscale può sembrare purtroppo plausibile: la combinazione di tagli al bilancio, licenziamenti di massa e malversazioni normative dell’amministrazione Trump è sulla buona strada per rendere l’Irs incapace di fermare l’elusione fiscale delle aziende. Anche l’ombra della sentenza “Loper Bright” della Corte Suprema degli Stati Uniti, che in generale riduce la portata normativa del Dipartimento del Tesoro nell’amministrazione equa delle imposte sulle società, incombe anche su questo caso.   

Il recente cambio di rotta sullo zucchero di canna in risposta alla richiesta personale di Trump sembra fatto apposta per ingraziarsi i responsabili dell’amministrazione fiscale statunitense. Alla domanda se la decisione della società di sostituire il dolcificante fosse stata influenzata da Trump, l’amministratore delegato ha risposto evasivamente, sostenendo che “il dialogo con il governo è parte integrante di ciò che accade”. 

Coca-Cola è ora così sicura di non dover pagare la sua cartella esattoriale multimiliardaria che nella sua relazione finanziaria annuale del 2024 ha riportato un reddito netto da interessi pari a 77 milioni di dollari relativo al caso. Questo flusso di denaro completamente ipotetico è presente perché, se l’azienda riuscirà a vincere il ricorso contro la sentenza della Corte tributaria e otterrà la restituzione della parte dell’accordo già pagata, riceverà anche gli interessi. Quindi Coca-Cola non solo sta nascondendo il debito fiscale di 18 miliardi di dollari che grava sulle sue finanze ma sta anche riportando (agli azionisti, non all’Irs) 77 milioni di dollari di interessi attivi per il 2024 che la società non ha ricevuto e non riceverà a meno che non vinca in appello.   

Ma l’atteggiamento spensierato di Coca-Cola, che invita a “stappare la felicità” di fronte a una delle più ingenti sanzioni fiscali della storia imposte dall’Irs, è in netto contrasto con la storia dell’azienda: pochi nomi sono stati così costantemente associati all’elusione fiscale delle imprese nel XXI secolo come quello di Coca-Cola. 

Quando nel 2004 il Congresso ha offerto alle multinazionali che beneficiavano di agevolazioni fiscali una “pace fiscale” per incoraggiarle a riportare negli Stati Uniti i loro profitti offshore a un’aliquota speciale ridotta, Coca-Cola ha colto al volo l’occasione. Secondo un rapporto della sottocommissione d’inchiesta permanente del Senato, l’azienda ha reintrodotto negli Stati Uniti 7,5 miliardi di dollari (almeno sulla carta), l’80% dei quali proveniva da succursali situate in noti paradisi fiscali.   

Tuttavia questi profitti, a quanto pare, erano rientrati negli Stati Uniti solamente con un “visto turistico”. Quando, poco più di un decennio dopo, il Congresso si è trovato nuovamente ad affrontare una crisi di delocalizzazione delle multinazionali, Coca-Cola ha rivelato che alla fine del 2016 ben 35 miliardi di dollari dei suoi profitti cumulativi erano celati all’estero e, di fronte alle norme contabili che imponevano di informare gli azionisti del potenziale impatto fiscale statunitense sul rimpatrio di questi profitti offshore, ha dichiarato solo che determinare tale imposta era “impraticabile a causa delle complessità associate al suo calcolo ipotetico”. Un rapporto Itep del 2017 dà un indizio sul motivo per cui Coca-Cola abbia scelto di non riferire i dettagli di questo calcolo: la società ha dichiarato 13 filiali in paradisi fiscali, di cui tre solo nelle Isole Cayman, dove non esiste proprio l’imposta sulle società.   

Le conclusioni della Corte tributaria statunitense nella sua sentenza del 2020 contro Coca-Cola sono ancora più schiaccianti perché riscontrano che, sulla base delle analisi fornite da esperti, i margini di profitto del controllato estere di Coca-Cola situate in paradisi fiscali erano così elevati da essere “economicamente inspiegabili”. In particolare, ha certificato che la (presunta) redditività di diverse controllate offshore della Coca-Cola superava di gran lunga qualsiasi tasso di rendimento “normale” plausibile sulle attività. Questi margini di profitto erano particolarmente elevati in Irlanda (214%) e in Brasile (180%), ma erano sospettosamente elevati anche in Cile, Costa Rica, Eswatini e Messico. Per le sei filiali considerate nel loro insieme, i profitti erano “quasi sette volte superiori” al tasso di rendimento previsto, e anche i margini di profitto delle filiali erano di gran lunga superiori a quelli della società madre statunitense.   

Ciò che rendeva questi margini di profitto così esorbitanti era il fatto che la società madre di Coca-Cola con sede negli Stati Uniti possedeva praticamente tutti i marchi commerciali e le altre attività immateriali dell’azienda (come il logo immediatamente riconoscibile), che sono una enorme fonte di redditività. Ciò significa che la maggior parte dei profitti dell’azienda dovrebbe essere associata alla società madre. Invece, le filiali estere sostenevano in qualche modo di generare la maggior parte dei profitti dell’azienda. E l’unica filiale che riportava i margini di profitto più assurdamente elevati (la filiale irlandese, con un rendimento del 214%) non possedeva alcun bene immateriale di valore; quindi, la sua capacità di generare reddito sarebbe dovuta essere estremamente limitata. 

Questo ha spinto la Corte a porre la seguente domanda retorica: “Perché le [controllate estere], impegnate come sono nella produzione contoterzi di routine, sono le aziende di cibi e bevande più redditizie al mondo? E perché la loro redditività supera di gran lunga quella della [società madre], che possiede i beni immateriali da cui dipende la redditività dell’azienda?”. La risposta ovvia, come indicato dalla Corte nella sua decisione, è che non dovrebbe essere così e che questi profitti dovrebbero essere riassegnati per essere soggetti alla stessa aliquota fiscale sulle società statunitensi che devono pagare le aziende più piccole e rispettose della legge.

Ma l’estate del 2020, quando la Corte tributaria statunitense ha emesso la sua sentenza contro Coca-Cola, sembra ormai lontana un’eternità per molti cittadini. E con l’amministrazione Trump che invia chiari segnali di non voler applicare in modo completo o equo le nostre (chi scrive è statunitense, ndr) leggi fiscali sulle società, è tutta un’altra storia per le grandi multinazionali che cercano di eludere la loro corretta quota di tasse.   

Ma anche se il Dipartimento del Tesoro di Donald Trump non vuole vederli, i fatti alla base della sentenza della Corte tributaria restano schiaccianti, e l’indifferenza di questa amministrazione nei confronti dei nostri crescenti deficit di bilancio federali non li rende meno reali. Se davvero i dirigenti di Coca-Cola hanno ragione nell’affermare che dovranno pagare solo il 3% delle imposte che devono attualmente versare, vorrà dire che il resto di noi dovrà farsi carico del restante 97%. 

Matthew Gardner è senior fellow presso l’Institute on taxation and economic policy (Itep) di cui è stato direttore esecutivo tra il 2006 e il 2016. Il suo lavoro si concentra sui sistemi fiscali federali, statali e locali, con particolare attenzione all’impatto delle politiche fiscali sui contribuenti a basso e medio reddito.

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