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Crisi climatica: la settimana di New York in vista del 2020, l’anno chiave

© unfccc, flickr

“Il summit delle Nazioni Unite serve per favorire il dialogo fra i diversi attori e ridurre l’inerzia degli ultimi 20 anni. È importante perché tutti sono chiamati a rilanciare impegni per la decarbonizzazione”. A quattro anni dall’Accordo di Parigi, infatti, i “contributi volontari” degli Stati sono in larga misura al di sotto degli obiettivi. E nel 2020 ci sarà il secondo round, alla COP26 di Glasgow, dove si farà il punto di tutti i contributi degli Stati. Il governo Conte annuncia la “neutralità climatica” al 2050. L’analisi di Stefano Caserini

Dal 23 al 27 settembre si tiene a New York la Settimana per il clima 2019, un appuntamento di grande importanza per la mobilitazione mondiale contro il cambiamento climatico e per l’aumento degli impegni concreti di riduzione delle emissioni di gas serra. L’incontro di New York è preliminare e preparatorio del negoziato si svolge nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che come previsto dall’Accordo di Parigi del 2015 è oggi fondato sui Contributi Nazionali Volontari (NDC) dei Paesi; questi NDC sono gli impegni (riduzione emissioni, sviluppo energie rinnovabile, etc.) volontari degli Stati, che devono essere rivisti al rialzo ogni cinque anni. Dopo quelli sottomessi nel 2015, da parte di 184 Stati, quasi tutti i firmatari dell’Accordo, nel 2020 ci sarà il secondo round, alla COP26 di Glasgow, dove si farà il punto di tutti i Contributi arrivati.

Come noto, sommati tutti insieme gli impegni sottoscritti negli NDC del 2015 porterebbero anche se rispettati ad un aumento medio della temperatura mondiale di più di 3°C rispetto ai livelli preindustriali, soglia molto distante dal “ben al di sotto di 2°C” concordato a Parigi. Dunque, per facilitare il fatto che gli Stati siano più ambiziosi nel rilanciare i loro impegni si è creata una rete di impegni a livello di città, regioni, aziende, investitori. Se uno Stato vede che i suoi player industriali più importanti hanno preso impegni nel senso della decarbonizzazione, della riduzione delle emissioni e a lungo termine di un loro azzeramento, sarà più agevolato nel aumentare l’”ambizione” del suo secondo NDC. È questo quello che c’è dietro la Settimana del clima, come indica la stessa agenda dei sette giorni (climalteranti.it), in cui ci sono incontri che coinvolti sia politici e amministratori che esponenti del mondo industriale e della finanza.

In altre parole, l’incontro di New York serve per favorire il dialogo fra i diversi attori al fine di far progredire il negoziato e rimuovere gli ostacoli, ridurre l’inerzia degli ultimi 20 anni. È importante perché tutti i soggetti sono chiamati a rilanciare, ma allo stesso tempo c’è il pericolo che tutti stiano a guardare che cosa fanno gli altri.

L’aumento dell’ambizione e dell’impegno sul tema clima riguarda anche l’Italia, che sarà chiamata a fare di più rispetto a quanto ha previsto fino ad oggi nella Strategia energetica Nazionale e nel Piano Energia e Clima. Specialmente se l’Europa, come è molto probabile, aumenterà il suo impegno con l’NDC del 2020. L’Ue infatti si era impegnata nel 2015 a ridurre del 40% le emissioni di gas serra al 2030 rispetto al 1990. Poi a fine novembre 2018 è arrivata la proposta della Commissione uscente risalente sulla 2050 long-term strategy, che ha affermato l’importante impegno alla  “carbon neutrality” nel 2050, e ha messo le basi per un probabile incremento della riduzione nel 2030 dal 40% al 50%; questo rialzo dovrà essere approvato dal Parlamento e dal Consiglio europeo durante il prossimo anno, prima della COP26 del dicembre 2020.

Questo per dire che i momenti “formali” arriveranno tra qualche mese. E in quella sede si vedrà chi avrà rilanciato in modo adeguato e chi no. Già oggi possiamo trarre una valutazione della qualità degli impegni proposti dagli Stati grazie ad esempio al lavoro del gruppo di studiosi indipendente “Climate Action Tracker”. L’Europa si è presa l’insufficienza, gli Stati Uniti e la Russia sono stati giudicati “criticamente insufficienti”, la Cina “gravemente”. L’NDC dell’India, invece, è compatibile con un riscaldamento di 2°C. A proposito di Russia: proprio in questi giorni ha annunciato di aver ratificato l’Accordo di Parigi. Una buona notizia anche se resta il fatto che il contributo volontario di quel Paese è per ora scandalosamente modesto, la Russia non ha proposto nulla di diverso dal “business as usual”. Più che la ratifica sarà importante vedere se nel 2020 deciderà di rilanciare il suo impegno oppure no.

L’anno che ci aspetta è davvero un anno cruciale e in questo senso le manifestazioni, a New York e nel mondo, costituiscono un passaggio importante. Ed è anche il motivo per cui l’IPCC tra 2018 e 2019 ha pubblicato tre Special report –uno su Criosfera e Oceani è uscito il 25 settembre – con dati pesanti. C’è da sperare che questi dati e la pressione mondiale dei giovani possano spingere i Paesi a fare quelle mosse che sono inevitabili se si vogliono rispettare gli obiettivi dell’Accordo, sottoscritto dagli stessi Stati.

L’Italia deve essere più ambiziosa. E passare dalle dichiarazioni ideali agli atti formali e concreti. I numeri del Piano Energia e Clima e della precedente Strategia energetica nazionale non sono in linea con l’obiettivo di Parigi, “al di sotto dei 2° C”. L’Italia ha avviato una procedura con la Commissione europea per rivedere quei numeri, ma è uno dei Paesi che senza dubbio deve fare di più anche nella qualità del dibattito pubblico su questi temi. E non tanto, o non solo, perché è “giusto”; ma perché ci conviene. Importiamo l’energia da fuori: non essere più dipendenti da Russia, Algeria, Libia non sarebbe male. Inoltre, per zone come la Pianura Padana, la decarbonizzazione vorrebbe dire meno inquinamento dell’aria. Se tra 30 anni non dovremo più utilizzare i combustibili fossili, è il tempo di smetterla con le parole e di pensare alle scelte infrastrutturali urgenti. È inevitabile chiedersi che senso abbiano certe opere che hanno benefici che, se ci sono, arrivano fra 30, 40 o 50 anni. Penso alla TAV. Il Parlamento italiano ha deciso di ratificare alla quasi unanimità l’Accordo di Parigi e di “starci dentro”, come ha ribadito il presidente del Consiglio Conte. E con questi dati di realtà e impegni annunciati, non è più possibile trattare come trascurabili o secondarie le politiche sul clima. Si tratta di gestire la transizione. È necessario iniziare ora a pensare alla chiusura delle centrali a carbone, non aspettare il 2024 quando gli operai saranno in piazza. Quali progetti di reindustrializzazione prevediamo per le zone dove chiuderanno centrali a carbone, che dovranno esser chiuse anche perché non sono più competitive ma sono in perdita?

L’annuncio di “neutralità climatica” al 2050 fatto dal presidente del Consiglio Conte è importante. Toccherà lavorare seriamente. Se si decide di fare sul serio, l’Italia ha le competenze -accademiche, industriali, istituzionali- per elaborare queste strategie e per attuarle. Bisogna investirci però in persone e in risorse. Per il momento lo spazio e le risorse dedicate a questi temi sono stati marginali, confinate ad alcune iniziative del ministero dell’Ambiente. Non è questa la sede per dettagliare alcune proposte ambiziose. Solo qualche esempio. Nella Strategia energetica nazionale era prevista la metanizzazione della Sardegna. Mi chiedo: visto che tra 30 anni dobbiamo dismettere completamente il gas, il che significa essere circa a metà dell’opera tra 15 anni, ha senso oggi metanizzare la Sardegna? Non è un po’ tardi? Non sarebbe il caso di partire proprio da quella Regione per un sistema energetico diverso?

Oppure pensiamo a Berkeley, in California, Stati Uniti. Il Consiglio comunale ha deciso che le nuove case non dovranno avere più il gas, perché nel mondo decarbonizzato ci si baserà più sull’energia elettrica, prodotta da fonti rinnovabili. Questo è pensare avanti. Ultimo esempio, le autovetture. Non è il caso di decidere quando non sarà più consentito vendere auto che funzionano con i combustibili fossili, per far preparare le cause automobilistiche? Che cosa aspettiamo?

Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2019)

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