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Ciclabilità e lentezza: la “mobilità sostenibile” è ormai un vestito troppo stretto

© Makarios Tang - Unsplash

Imbrigliare la lentezza nell’idea di spostamento è riduttivo. Muoversi al di sotto dei 25 chilometri orari permette di entrare in relazione con quello che ci circonda e aiuta a capirlo. Ecco perché serve un piano nazionale per valorizzarla. Il commento di Paolo Pileri in occasione della settimana della mobilità sostenibile

Da 19 anni dedichiamo una settimana all’anno per parlare di mobilità sostenibile. E facciamo bene a farlo. In queste ore sto pedalando con la mascherina lungo quella che sarà la ciclovia VENTO che pian piano (troppo piano in verità) diventerà realtà. Coincidenza vuole che mi trovi nel bel mezzo della settimana della mobilità sostenibile e da qualche giorno mi martella una domanda: “Siamo proprio sicuri di far bene a incasellare così prepotentemente la ciclabilità dentro la cornice ingombrante della sola mobilità sostenibile?”. Sono arrivato rapidamente a concludere che, no, non più.

Siamo ormai più che pronti a un nuovo balzo. La ciclabilità come la camminabilità sono molto di più che un movimento sostenibile. Ed è qui allora che voglio aprire la sfida: proviamo a considerarle un vero e proprio modo di abitare la città e il territorio. Se infatti dilatiamo la prospettiva abbiamo solo da guadagnarci. Quando ci muoviamo lentamente, ovvero sotto i 25 chilometri orari, la nostra relazione con l’intorno si riempie di relazioni, stimoli, corporeità e soprattutto pensieri ed emozioni suscitati dai luoghi che attraversiamo. La parola lentezza contiene dentro di sé la parola “lente”. E non è un caso proprio perché solo così possiamo vedere molto di più e molto meglio.

Capite bene che muoversi avendo relazioni dense tra sé e il fuori di sé non è solo mobilità, ma è vita. Mi muovo lentamente, quindi esisto. Ho la sensazione che se proseguiamo a pensare la lentezza dentro le pur sostenibili politiche di mobilità, finiremo per perderci dentro un bicchier d’acqua, rischiando di non capire il potenziale più grande e generativo che la lentezza si porta dentro. Investire in infrastrutture per la lentezza deve poter significare offrire ai cittadini un modo convincente, diverso e bello di abitare la terra, di apprendere, di ricordare, di stupirsi, di imparare e di insegnare. Di emozionarsi e non essere indifferenti a quel che sta al nostro fianco. La lentezza, vuoi a piedi vuoi in bici vuoi in barca a remi, è un laboratorio fondamentale per il senso di cittadinanza, rinunciarvi vorrebbe dire rinunciare a un bene fondamentale quasi come l’acqua, il pane, l’ospedale e smarrire la sensazione di essere cittadini di qualcosa. Io credo che sia questo un nuovo passaggio da mettere a fuoco per tutti noi, dallo Stato al cittadino.

La progettazione della lentezza è allora un manifesto nel quale un Paese può depositare molte più aspettative che il solo miglioramento del muoversi da un punto a un punto. La mobilità sostenibile è un vestito troppo stretto che limita anche l’orizzonte degli investimenti pubblici. Se camminando possiamo fare una lezione a dei ragazzi, allora fare o manutenere un sentiero potrà avvalersi dei fondi delle politiche per la scuola. Se un sentiero è per tutti e riduce le disuguaglianze, allora posso farmi aiutare dalle politiche di coesione. Se pedalando apprendo la bellezza della biodiversità, allora la realizzazione di una ciclovia potrà usare un pochino dei finanziamenti (quei pochi che ci sono) per la valorizzazione della biodiversità. Se facendo un lungo cammino soggiorno in vari piccoli borghi, mangio nelle osterie a loro volta approvvigionate da aziende agricole locali (sempre che un piano lo preveda) e visito piccoli musei, sto in qualche modo sostenendo le economie locali e quindi la lentezza dovrebbe e potrebbe attingere ai vari finanziamenti e politiche di quei settori economici che, tanto o poco, combattono la fragilità o la marginalità dei territori.

Capite che nel momento in cui sposto il baricentro della ciclabilità o della camminabilità dal perimetro della mobilità sostenibile a quello della vita sostenibile, la lentezza diviene il luogo dove si possono condensare varie politiche e i relativi finanziamenti. Un altro modo di fare politica, rifuggendo cornici troppo strette. Sono convinto che questo ci aiuterebbe a investire meglio e con un’ottica multifunzionale e non monofunzionale. Tenere la lentezza legata a doppio nodo al mondo della mobilità, pur sostenibile e virtuosa, me la fa somigliare, un po’, a quella pratica barbara di tagliare i tendini alle anatre per tenerle ferme nel proprio stagno. Quelle anatre invece, abbiamo bisogno di farle volare.

Abbiamo bisogno di un progetto di lentezza nazionale dove far convergere diverse azioni e misure; abbiamo bisogno di una visione grande e multi tematica che vada oltre la mobilità sostenibile pur non abbandonandola. Abbiamo bisogno di una politica che non si vergogni di proporre nuovi modi di abitare attraverso un’idea di lentezza che non sia vista come disvalore di una società dove vince (a parole) solo chi va veloce, ma come misura per sprigionare economia, cultura e posti di lavoro inediti, soffocati da decenni di investimenti solo in velocità. Attendiamo quindi di celebrare la settimana culturale della lentezza.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “100 parole per salvare il suolo” (Altreconomia, 2018)

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