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Cara di Mineo: la chiusura a favore di telecamere non basta. Ecco le criticità che restano

L’associazione Medici per i diritti umani, che ha seguito centinaia di persone costrette a vivere in una struttura inadeguata alle loro esigenze, denuncia “le modalità profondamente inique e irresponsabili con le quali è stato scritto il finale di questa storia sbagliata

Il 2 luglio scorso -con il trasferimento degli ultimi 28 migranti verso il Cara di Isola di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone- è stato chiuso definitivamente il Cara di Mineo. “Già nel 2015 ne chiedevamo la chiusura. E le motivazioni erano già chiare all’epoca: il centro aveva degli ostacoli congeniti che rendevano estremamente difficili, se non impossibili, la buona accoglienza e l’integrazione”, spiega Samuele Cavallone, coordinatore del team di Medici per i diritti umani (Medu) in Sicilia. Nel 2014 l’associazione aveva attivato un servizio di assistenza medica e psicologica con cadenza settimanale a favore dei migranti ospiti del centro proprio per far fronte alle gravi carenze della struttura nella presa in carico dei migranti più vulnerabili e nel corso degli ultimi cinque anni ha monitorato da vicino le condizioni di vita nel centro.

Ma alla soddisfazione per la chiusura di “uno dei peggiori modelli di accoglienza sperimentati nel nostro Paese”, commenta Medu si affianca l’indignazione “per le modalità profondamente inique e irresponsabili con le quali è stato scritto il finale di questa storia sbagliata”. “La chiusura del Cara avrebbe potuto essere una buona notizia, ma ad alcune condizioni. Che purtroppo non si sono verificate”, sottolinea Cavallone. Uno dei nodi più critici ha riguardato proprio la gestione dei soggetti più fragili. Nell’ultimo gruppo di migranti rimasto all’interno del Cara c’erano alcuni pazienti in cura farmacologica seguiti da Medu che sono stati trasferiti con tutti gli altri a Isola di Capo Rizzuto, in una struttura che certamente non è paragonabile a Mineo, ma che comunque non è adatta alle esigenze di persone così fragili. “Sono stati informati del trasferimento solo il giorno prima della partenza: sono molto spaventati, non si trovano bene e vogliono lasciare il campo. Uno di loro lo ha già fatto -commenta Cavallone-. Per alcuni di loro erano già stati avviati dei percorsi per il trasferimento all’interno di centri specializzati, ma l’accelerazione voluta dal ministro Salvini ha interrotto questo percorso”.

Emblematica, in questo senso, la vicenda di Adou, un giovane con gravi disturbi psichici che ha trascorso gli ultimi giorni all’interno del Cara da “abusivo”: il giorno previsto per la partenza da Mineo, infatti, non si era presentato ai cancelli, ma il suo badge era stato comunque disattivato. Era rimasto nel centro anche dopo la chiusura ufficiale della struttura, assieme ad altre due persone con disturbi psichici: nella notte tra il 6 e il 7 luglio Adou è stato allontanato dal Cara e ritrovato solo nel tardo pomeriggio del 7 luglio dagli operatori di Medu, seduto sul ciglio della statale Gela-Catania con una ferita alla testa.

Solo grazie all’intervento di Medu e alla disponibilità della Caritas di Caltagirone è stato possibile evitare che Adou e altri 25 migranti (tra cui sette vulnerabili) finissero per strada. “Sono stati accolti in un contesto abitativo adeguato, dove c’è attenzione alle loro esigenze e un contesto di vicinato che rende più facile costruire relazioni -conclude Samuele Cavallone-. Nel giro di 48 ore abbiamo potuto osservare un miglioramento impensabile a Mineo, a riprova del fatto che il contesto ha un grandissimo ruolo nei processi riabilitativi”.

Aperto nel 2011 per volere dell’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni, il Cara di Mineo avrebbe dovuto rappresentare il fiore all’occhiello del sistema di accoglienza italiano. Le criticità, tuttavia, divennero presto evidenti. Il centro, infatti, si trovava in una località isolata (a circa 10 chilometri dalla città da cui prende il nome), lontano dai servizi del territorio e dove i migranti erano costretti a vivere in condizione di sovraffollamento (nel luglio 2014 venne registrata la capienza record di 4.120 migranti a fronte di una capienza programmata massima di duemila persone), tempi di permanenza interminabili in attesa del riconoscimento della protezione internazionale.

“È l’idea stessa di poter garantire un’accoglienza dignitosa attraverso una macro-struttura che ospita migliaia di persone, incluse persone estremamente vulnerabili, a essere errata”, denunciava nel giugno 2015 Medu in un rapporto. Nei cinque anni di attività, il team medico-psicologico di Medu ha seguito 230 persone, costrette a vivere in una struttura inadeguata alle loro esigenze, nonostante la loro presa in carico e l’accesso a cure medico-psicologiche adeguate fossero altamente problematici se non impossibili. “Stiamo parlando di uomini e donne che hanno subito torture e abusi durante il loro viaggio, soprattutto in Libia -spiega Cavallone-. Queste esperienze, che non sono state rielaborate, hanno portato in molti casi allo sviluppo di psicopatologie anche gravi. E un contesto come quello di Mineo non era adatto a rispondere ai loro bisogni”.

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