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Economia

Chiquita etica. Possibile? Sì, a parole – Ae 57

Numero 57, gennaio 2005La strada per la sostenibilità è sempre più lastricata di multinazionali e buone intenzioni. O strategie d’immagine. L’etico, l’equo, l’ambiente sono nicchie di mercato che fanno gola anche ai giganti, oppure un modo per risciacquarsi i vestiti…

Tratto da Altreconomia 57 — Gennaio 2005

Numero 57, gennaio 2005

La strada per la sostenibilità è sempre più lastricata di multinazionali e buone intenzioni. O strategie d’immagine. L’etico, l’equo, l’ambiente sono nicchie di mercato che fanno gola anche ai giganti, oppure un modo per risciacquarsi i vestiti macchiati d’ingiustizia. In queste pagine presentiamo alcuni casi di grandi aziende che cercano di unire all’etica il proprio brand, con obiettivi e risultati diversi. Fenomeno da tenere d’occhio: positivo se mette in  moto comportamenti “socialmente responsabili”, ma a rischio di creare confusione tra i consumatori. Com’è accaduto di recente per il “caffè sostenibile” di Kraft, per esempio: prodotto da piantagioni colombiane gestite in modo sostenibile dal punto di vista ambientale, come certificato dall’ong Rainforest Alliance. L’iniziativa ha però sollevato le proteste dell’inglese Fairtrade Foundation: “C’è il rischio -ha dichiarato il direttore Ian Bretman al quotidiano Daily Telegraph- che venga percepito come prodotto di commercio equo dai consumatori”. Ma vi raccontiamo anche di come un’iniziativa di Coop Italia riuscirà, forse, a colpire sul vivo i padroni del latte in polvere, che da anni tengono il prezzo dei loro prodotti artificialmente alto e che, nonostante una sanzione dell’Antitrust non sembrano aver imparato la lezione.
 
Banane “etiche” col bollino blu? Lo crede possibile “Gdoweek”, settimanale per operatori della grande distribuzione italiana che a novembre ha assegnato a Chiquita l’Ethic Award per la categoria “Personale e processi interni”. Il premio -organizzato con Kpmg Consulting Business Advisory Services (nota società di consulenza e revisione contabile)- è andato alla multinazionale di Cincinnati per la responsabilità d’impresa: “Per il forte impegno di ‘grande rispetto’ adoperato a livello mondiale per superare il passato, attraverso diverse modifiche strutturali”, con particolare riferimento alla certificazione Sa 8000 ricevuta da sue piantagioni in Costa Rica, Colombia e Panama. Nella giuria del premio anche tre “volti noti” del commercio equo: Paolo Brichetti, direttore di Ctm Altromercato, Paolo Pastore, direttore di Transfair Italia, e Teresa Pecchini per l’Associazione Botteghe del mondo. A loro chiediamo spiegazioni su un premio che ci ha lasciati molto perplessi. E in effetti è stato negativo il voto dei primi due: “A fronte di un processo in atto da parte di Chiquita -conferma Brichetti- permangono grossi problemi e discrepanze rispetto a quanto l’azienda comunica, come confermano soprattutto i sindacati locali”. E ci si interroga sul senso di premi simili. Fa eco Paolo Pastore: “Il nostro giudizio su Chiquita resta sospeso. Vogliamo vedere se l’azienda andrà avanti o se si tratta soltanto di una boutade pubblicitaria”. Teresa Pecchini invece ha deciso di premiare l’iniziativa: “Tra i candidati -dice- il progetto di Chiquita era il migliore. È importante riconoscere lo sforzo che un colosso del genere sta facendo”.

Ma vediamo come la pensa Alistair Smith, coordinatore di Banana Link, organizzazione britannica tra le più impegnate nella difesa dei diritti dei lavoratori bananieri, e parte del coordinamento europeo Euroban. “Firmare un accordo -dice Smith- è un primo passo, ma non basta”.

Quindi il tuo giudizio sul premio a Chiquita è negativo?
“Chiquita è stata premiata da poco anche nel Regno Unito, ma dev’essere chiaro a tutti che questa non è una compagnia angelica. Nonostante sia la più sindacalizzata nel suo settore e tra quelle che hanno fatto qualche limitato sforzo per migliorare l’impatto ambientale delle piantagioni, c’è ancora un lavoro enorme da fare perché Chiquita possa essere considerata una compagnia etica. Chiquita dovrebbe fare attenzione a dare fiato alle proprie trombe, finché chi lavora per lei in Guatemala, Nicaragua e Costa Rica vivrà in condizioni così povere e riceverà un salario tanto basso (meno di un euro al giorno in Nicaragua)”.
 
L’azienda ha anche firmato un accordo con Colsiba, il coordinamento dei sindacati bananieri latinoamericani.
“Chiquita può giustamente andar fiera dei passi fatti e di aver firmato l’accordo sui diritti dei lavoratori con i sindacati latinoamericani e con il sindacato internazionale Iuf. Uno sforzo del genere è molto più importante di tanti altri, è un modello che altre aziende dovrebbero imitare con urgenza se vogliono evitare continue denunce pubbliche qui al Nord, cioè nei loro mercati chiave. Ma firmare una bozza d’accordo è solo un primo passo: quel che importa davvero è poi mettere in pratica le belle parole. E questo può accadere soltanto se i sindacati locali sono abbastanza forti per dialogare alla pari con Chiquita”.
 
E per quanto riguarda la Sa 8000?
“Non abbiamo fiducia nelle società private di certificazione che si occupano della Sa 8000 per le grandi compagnie bananiere. Finché società come Sgs, Bvqi e Intertek marginalizzeranno le opinioni dei sindacati che operano nelle zone dove vengono effettuate le verifiche, le compagnie bananiere non saranno in grado di ‘vendere’ le certificazioni al vero consumatore critico. Su questo fronte stiamo lavorando duramente anche per educare i buyer dei supermercati. Se i rivenditori chiedessero seriamente il rispetto delle convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) da parte dei propri fornitori, le certificazioni private sarebbero inutili. Ci opponiamo alla strisciante privatizzazione di quelli che dovrebbero essere standard pubblici. L’Ilo esiste ancora: dovremmo cercare di migliorarne l’efficienza piuttosto che screditare l’organizzazione dicendo che non funziona. L’Ilo sarà sempre meno in grado di funzionare se la società civile e le aziende continueranno a insistere che gli standard di iniziativa privata sono l’unica via da percorrere”.

Un altro fronte è quello ambientale. Anche qui Chiquita ha ottenuto la “certificazione” verde dell’ong Rainforest Alliance.
“Chiquita è molto più avanti degli altri giganti del settore nell’organizzazione di relazioni strutturate con i sindacati, ma come in quest’ambito permangono troppi problemi e ingiustizie economiche perché possa ricevere un premio, lo stesso vale per l’impatto ambientale. È chiaro che la certificazione di Rainforest Alliance è meglio che niente, ma l’uso di pesticidi sta ancora uccidendo le persone e danneggiando l’ambiente nelle piantagioni di Chiquita e nelle altre piantagioni bananiere.
Rainforest Alliance spinge l’azienda a migliorare, ma esistono limiti oggettivi per una monocoltura che dipende in modo così massiccio dai prodotti chimici”.
 
Esistono altre multinazionali bananiere interessate a una maggiore sostenibilità?
“Dole è nel board di Social Accountability International (Sai, l’organizzazione da cui la Sa 8000 dipende, ndr), ma ripeto, serve un coinvolgimento più serio dei sindacati prima che i lavoratori possano trarre un qualsiasi beneficio pratico dalle certificazioni rilasciate alle aziende agricole per le quali lavorano”.
 
Chi è, invece, sulla lista nera?
“Del Monte e Noboa, che credono di potere restare nel commercio bananiero senza cambiare nulla delle condizioni disumane in cui tengono la maggior parte dei loro lavoratori”.
 
Da tempo si parla di multinazionali interessate al commercio equo, di una loro possibile iscrizione ai registri di Flo, l’organismo di certificazione internazionale del fair trade. Ma una multinazionale equa è possibile?
“Alcuni importatori equi sono già multinazionali in senso stretto, perché hanno sedi in diversi Paesi, per cui il dibattito è un po’ difficile. Dole inoltre è coinvolta nel trasporto di banane biologiche e certificate fair trade dal Perù. Il rischio è che queste compagnie -inclusi i supermercati attraverso cui vendono la frutta- usino le banane del commercio equo solo come uno specchietto, per coprire il modo in cui trattano il 99% dei loro fornitori nel mondo”.
 
Come si devono muovere i consumatori?
“Devono pretendere dai supermercati trasparenza lungo tutta la catena di approvvigionamento e prezzi giusti per i fornitori, così che anche i lavoratori delle piantagioni possano guadagnare salari dignitosi”. !!pagebreak!!

 
Bananieri di tutto il mondo unitevi, a Bruxelles
“Fermare la competizione dal basso”: è il titolo della “Conferenza bananiera internazionale” in programma dal 28 al 30 aprile 2005 a Bruxelles, organizzata da sindacati bananieri, produttori e attivisti. Tra questi anche Euroban, rappresentata per l’Italia da Ctm Altromercato. È prevista la partecipazione di catene della grande distribuzione e di associazioni dei consumatori.
I temi caldi: dalle condizioni di lavoro al degrado ambientale provocato dalle piantagioni. Ma l’argomento più delicato sarà quello delle quote di importazione in Unione Europea, che prevedono una tariffa unica di 230 euro la tonnellata sulle banane in ingresso, cifra considerata troppo alta dagli esportatori latinoamericani (i più grandi al mondo). Le quote di importazione sono state decise dall’Ue per “tutelare” le proprie ex-colonie in Asia, Caraibi e Pacifico (Acp), che hanno produzioni bananiere più ridotte e meno competitive sul mercato. !!pagebreak!!

 
Se l’impero inciampa negli indigeni
Qui Patagonia si dice Benetton
La multinazionale contro i campesinos. O, se preferite, un boomerang mediatico gestito in maniera fin troppo sapiente da Benetton.
Il succo della storia potrebbe stare qui, sospeso tra il Veneto e la Patagonia, in una diatriba fatta di diritti indigeni ancestrali, finita alla sbarra con la vittoria della multinazionale sui più deboli, chiusa a novembre da un gesto magnanimo della stessa con brindisi di flash, comunicati stampa, dichiarazioni soddisfatte. Almeno da una parte. Perché per quanto riguarda Atilio Curiñanco e Rosa Nahuelquir, famiglia mapuche che Benetton ha cacciato da 525 ettari di terra occupati -per sopravvivere- in Argentina, le cose non possono finire così.
La questione ha fatto il giro del mondo (ne abbiamo parlato anche su Ae n. 53). Data d’inizio il 2002, quando Rosa, in seguito alla crisi economica argentina, perde il lavoro. Chiusa la fabbrica tessile dov’era operaia, il magro salario di Atilio per tutti e due non basta. Poche le vie d’uscita. La decisione: tornare alle origini, dove i due sono nati e cresciuti, a quella Madre Terra che appartiene agli indigeni da sempre. Che qui significa questo pezzo di Patagonia argentina e cilena, a cavallo delle Ande, dove i mapuche risiedono da tempo immemore. Atilio pensa subito all’area di Santa Rosa, nella provincia di Esquel: “La conosco da quando sono nato -racconta-, ho visto che nessuno l’aveva occupata”. Dice: “Abbiamo pensato che fosse una buona opportunità”. Così Atilio si rivolge all’Istituto Autarchico de Colonización (Iac), chiede il permesso di occupazione, ma il via libera scritto non arriva. Dopo otto mesi di attesa e una rassicurazione “verbale” da parte dello Iac, la famiglia mapuche si trasferisce sul terreno e inizia a coltivarlo. La vita nuova finisce dopo 29 giorni con l’intervento della polizia. Perché quel fazzoletto di terra, al contrario di quanto credevano Atilio e Rosa (con la comunità indigena locale) non è libero, ma parte di una proprietà sterminata della Compañia de Tierras Sud Argentino. Ovvero, in altre parole, controllata da Benetton, che nel 1991 comprò la Compañia dai precedenti proprietari (britannici) per 50 milioni di dollari, diventando così il primo proprietario terriero argentino. Un impero da 900 mila ettari, pari a tre volte la Valle d’Aosta, dedicati principalmente all’allevamento. Quattro centri di produzione (tre in Patagonia e uno nella provincia di Buenos Aires) con 16 mila bovini ma, soprattutto, 260 mila pecore da cui si ricavano ogni anno fino a un milione e 300 mila chilogrammi di lana, spedita in Europa per la produzione di maglioncini e abiti colorati. In questa proprietà di cui non si vedono i confini a occhio nudo, 525 ettari sono poco più di una manciata di terra.

Perché allora accanirsi contro due contadini? Per ristabilire la legalità, sostiene Benetton. Così Rosa e Atilio sono finiti davanti a un giudice che li ha condannati ad abbandonare il terreno. Un’assurdità per i mapuche, perché le terre della Patagonia appartengono da sempre ai popoli originari e furono espropriate a fine ‘800 dal governo argentino che le mise poi in vendita. Un gesto sproporzionato quello di Benetton, che ha provocato una mobilitazione internazionale, da attivisti di base fino al premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel, che l’estate scorsa ha scritto agli industriali trevigiani per chiedere la restituzione della terra ai coniugi Curinañco. 
La multinazionale ha accettato di incontrare il Nobel e i mapuche a novembre a Roma, alla presenza del sindaco Walter Veltroni: Benetton “libererà” addirittura 2.500 ettari di proprietà della Compañia, mettendoli però a disposizione del governo argentino e non direttamente dei mapuche. Sarà poi il governo a decidere come e a chi distribuire le terre: “Non è nostro compito -dice l’azienda- noi facciamo gli imprenditori”. I mapuche rifiutano questa soluzione: “La donazione di Benetton allo Stato -ha detto Gustavo Manuel Macayo, legale di Rosa e Atilio- non legittima per niente la sua proprietà in Patagonia. Questo perché i popoli originari sono preesistenti allo Stato”. In altre parole: non potete restituirci ciò che è già nostro. Il passaggio di mano dovrebbe verificarsi a febbraio 2005, ma di certo non c’è nulla anche perché non esiste un accordo scritto tra Edizione Holding-Benetton e l’Argentina, tranne le dichiarazioni apparse sulla stampa e i comunicati ufficiali dell’azienda. Ma secondo il sindaco di Roma Veltroni, ha ricordato Macayo, trattandosi di un’azienda di queste dimensioni non è necessario un impegno scritto, “è sufficiente la sua parola”. Molto critica l’associazione “Radici”, che ha portato in Italia Rosa e Atilio organizzando un tour nazionale dei mapuche perché raccontassero la loro storia: “Benetton ha nuovamente manifestato -afferma Radici- la volontà di non riconoscere il popolo originario della Patagonia quale interlocutore nella risoluzione della problematica”. Linea dura quindi: “Se perdurerà l’arroganza di Benetton punteremo a una campagna di boicottaggio dei suoi prodotti”.!!pagebreak!!
 
I signori del latte in polvere fanno cartello? E Coop guadagna sull’alternativa
Latte in polvere a prezzi europei anche in Italia. Idea -e provocazione- di Coop Italia: “Perché il latte in polvere deve costare come lo champagne?”. La campagna pubblicitaria (che vedete qui a fianco) ha accompagnato il lancio del nuovo latte per l’infanzia “Crescendo” a marchio Coop. La rivoluzione? Il prezzo: la confezione da 900 grammi costa 9 euro. Che significa, se preferite, dieci euro al chilo: “Un prezzo così basso fa scalpore, ma è assolutamente allineato al resto dell’Europa”, precisa Domenico Brisigotti, direttore dei prodotti a marchio di Coop.
Perché l’Italia, finora, è stata un’anomalia, un Paese dove i padroni del latte mantengono artificialmente alto il prezzo dei propri prodotti. È una storia tristemente nota alle 100 mila famiglie italiane costrette ad acquistare latti “di partenza” e “di proseguimento” per i propri bambini.
Tanto che già nel 2000 l’Antitrust aveva multato per oltre 6 miliardi di lire altrettanti giganti del settore (vedi Ae n. 6): Humana, Nestlé, Heinz (ex Plada), Milupa, Nutricia, Abbott. Le colpe: vendita quasi esclusiva nelle farmacie con prezzi “doppi e persino tripli rispetto agli analoghi prodotti venduti fuori dall’Italia” e un vero e proprio cartello, un’accordo tra le aziende per spartirsi il mercato degli ospedali e dei pediatri e assicurarsi, in questo modo, un certo numero di “clienti”.
Dopo quattro anni la situazione non è cambiata molto: in media il latte in polvere a Barcellona costa 19,60 euro, a Parigi 18,90, a Londra 18,60 e a Bonn 18,20, mentre a Milano il prezzo degli stessi prodotti schizza a 37,70 euro. Le cifre sono frutto di uno studio condotto nel 2003 dal Laboratorio per la salute materno-infantile dell’Istituto Mario Negri di Milano e sono state riprese dall’Antitrust che quest’anno ha aperto un procedimento per verificare se il comportamento di 13 aziende non si configuri come “intesa restrittiva della concorrenza” a livello europeo. Per i risultati si dovrà aspettare giugno del 2005.

Intanto i produttori di latte in polvere hanno promesso che da gennaio taglieranno i prezzi del 25-35%: un passo nella giusta direzione, anche restano lontani i livelli del resto d’Europa, dove alcuni Paesi, come l’Austria, hanno prezzi intorno ai 10 euro. In questo panorama si inserisce la proposta Coop, con due prodotti: “Crescendo 1”, da zero a sei mesi, e “Crescendo 2” da 6 a 12 mesi. Prezzo basso, ma non sottocosto: “Un piccolo utile c’è”, ammette Brisigotti. Ma l’ottica del progetto è quella di “difendere il potere d’acquisto del consumatore, che poi è la ragione per cui Coop è nata ed esiste”. Il latte viene prodotto in Francia da Unicopa Group, un gruppo cooperativo composto da cinque aziende, con circa 5 mila tra agricoltori, allevatori e dipendenti. La scelta del produttore è andata Oltralpe perché, spiega Brisigotti, “in Italia non esiste un’azienda in grado di garantire un’offerta del genere”. L’operazione che rischia però di attirarsi le critiche di chi difende l’allattamento al seno: “Noi ci siamo preoccupati di sottolineare l’importanza dell’allattamento al seno in tutta la nostra comunicazione”.

Cauto plauso a Coop arriva dalla sezione italiana di Ibfan, l’International Baby Food Action Network, da sempre impegnata nella promozione dell’allattamento al seno: per tutte quelle mamme che usano il latte artificiale, “non per colpa loro ma del sistema sanitario e dell’ambiente culturale che non le aiuta”, anche se la speranza è che “il loro numero si riduca il più rapidamente possibile”. Un rilievo viene però mosso all’“l’aggressività della campagna pubblicitaria”, che si invita a ricondurre entro i parametri previsti dal codice dell’Oms sulla commercializzazione dei sostituti del latte materno.
Tra l’altro, ricorda Ibfan, l’iniziativa di Coop non è unica nel suo genere: esistono “altri latti italiani di qualità simile e a prezzo europeo”.
Info: www.ibfanitalia.org

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