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Nei vigneti del Chianti, dove l’integrazione passa per il lavoro

I vigneti gestiti dalla famiglia Martini di Cigala nel Chianti a San Giusto (Siena)

Nel 2017 la Procura di Siena ha aperto la prima inchiesta per caporalato in Toscana. La collaborazione tra aziende agricole, cooperative ed enti di formazione dimostra che un’alternativa legale è possibile

Tratto da Altreconomia 208 — Ottobre 2018

Per andare a San Giusto a Rentennano si sale per un viale di cipressi. Siamo nel Chianti, a 20 chilometri da Siena. Non si incrociano macchine, silenzio e distese di vigneti. La strada finisce in un ampio piazzale. Un casale merlato in pietra ospita l’azienda di viticoltura biologica, proprietà da generazioni della famiglia Martini di Cigala. Sulla stessa corte, un casale più piccolo da tre anni è un centro di accoglienza dove vivono, in appartamenti separati, 18 richiedenti asilo. Un’inedita convivenza tra due mondi diversi, isolati tra le colline. Eppure qui la prossimità è stata l’occasione per avviare percorsi lavorativi trasparenti e legali: un esperimento riuscito di integrazione.

Lo dimostra la storia di Sait e Boateng, ex ospiti del centro, che oggi lavorano con continuità nella Fattoria San Giusto grazie a un percorso di formazione ideato da Pangea, la cooperativa responsabile dell’accoglienza. Boateng, 35 anni, è arrivato in Italia dopo un viaggio di un anno e mezzo. “In Ghana facevo il meccanico. Qui sto bene, ora conosco il lavoro”. Sait invece ha 24 anni e viene dal Gambia. Nel 2015 i due giovani hanno seguito un corso di formazione sulla viticoltura. Poi la cooperativa li ha guidati nell’attivazione di un tirocinio promosso dalla Regione Toscana grazie a un contributo del Fondo Sociale Europeo. A San Giusto hanno imparato il lavoro sul campo e hanno avuto impieghi via via più lunghi.

“Hanno un contratto da operai agricoli”, spiega Elisabetta Martini di Cigala, una delle titolari della Fattoria. “Sono persone affidabili, non abbiamo mai avuto problemi”. Quando i due ragazzi hanno cercato un appartamento a Gaiole, il paese più vicino, Elisabetta e i suoi fratelli hanno garantito per loro. Anche per questo, sono stati ben accettati in zona. Si muovono in bicicletta e con i mezzi, presto prenderanno la patente. Elisabetta parla dell’azienda, 150 ettari, in gran parte vigneti, integrati da oliveti e da aree per bosco e pascolo. Sei dei nove fratelli partecipano alla gestione della Fattoria San Giusto -certificata bio- che produce Chianti Classico e altre etichette note sul mercato nazionale ed estero. Luca Martini di Cigala, fratello di Elisabetta, segue il lavoro nei campi, con lui si sono formati Sait e Boateng: “Dopo tre anni, sanno fare i principali lavori in vigna, impareranno presto anche la potatura”. Una strada che permette oggi ai due giovani, con permessi di soggiorno per protezione umanitaria e sussidiaria, di avere una casa e un lavoro legale, e di potere aspirare a diventare cittadini a pieno titolo.

La storia di Sait e Boateng è un risultato non scontato in un settore, quello agricolo, caratterizzato strutturalmente da precarietà e dal ricorso al lavoro illegale degli stranieri. “È il percorso che vorremmo sempre: corso di italiano, corso di formazione, tirocinio, contratto di lavoro -dice Annalisa Pocci, direttrice della cooperativa Pangea-. Operiamo da vent’anni nella cooperazione sociale, la legalità del lavoro per noi è fondamentale. Siamo stati fortunati ad incontrare un’azienda disponibile e innovativa”.

Un caso esemplare perché ognuno ha fatto la sua parte: ente che si occupa dell’accoglienza, agenzie di formazione, datore di lavoro. Come dovrebbe essere la normalità. Eppure, anche nella campagna senese, sembra una goccia nel mare. L’anno scorso la Procura di Siena ha aperto la prima indagine per caporalato in Toscana. Una cooperativa di intermediazione gestita da tre cittadini curdi, con base nel Chianti, avrebbe reclutato sistematicamente africani, afgani e pachistani, con condizioni abitative e di lavoro degradanti. È il cosiddetto “nuovo caporalato”, dove l’intermediario non è un singolo individuo ma un ente formalmente costituito. Resiste anche il nero: in provincia di Siena, solo dai sopralluoghi a campione dell’Ispettorato del Lavoro durante la vendemmia 2017, sono emersi 58 casi.

Un momento del corso di formazione per addetto alla potatura promosso da “Agricoltura è vita Etruria”

Una situazione eterogenea, insomma: da una parte le aziende con pochi scrupoli a risparmiare sul costo della manodopera, dall’altra quelle attente alla legalità, di dimensioni medio-piccole, come San Giusto, o grandi, come Avignonesi a Montalcino, che, in caso di appalti ad altre ditte, applica un protocollo per la trasparenza e la sicurezza del lavoro

Succede anche, per fortuna, che le buone pratiche si diffondano. Come racconta Zoe, di origine tanzaniana, operatore per Pangea. “San Giusto è un modello che si basa sulla fiducia. Si sparge la voce che questi ragazzi lavorano bene, iniziano altri tirocini o contratti lavorativi. In questo momento diversi ospiti del centro lavorano in aziende agricole del Chianti, con contratti stagionali regolari. Io vado a parlare prima con i proprietari, porto il curriculum, poi faccio da referente. La cooperativa vigila sulla regolarità del contratto”.

Nella Fattoria c’è anche un terreno dato in comodato gratuito a Pangea e coltivato dai migranti per il consumo quotidiano. Lo hanno chiamato “Orto buono” e nasce dal sogno di un’attività agricola stabile, autogestita dagli ospiti. Un sogno che si scontra con ostacoli burocratici ma anche con la composizione sempre variabile del gruppo e con gli inevitabili momenti di sconforto o inedia. Zoe ci lavora con passione: “Abbiamo ortaggi di stagione, in estate pomodori, zucchine, peperoni. Come cooperativa sociale non possiamo vendere. Ma funziona come punto di aggregazione, chi vuole viene e dà una mano”.

Intanto ragazzi stranieri iniziano altri tirocini. Sait e Boateng ormai lavorano in autonomia, affidano loro i nuovi per imparare. Il progetto “Garanzia Giovani”, nato per contrastare la disoccupazione, permette, con un sostegno alle aziende, di effettuare tirocini retribuiti fino a sei mesi, ed è aperto a italiani e a stranieri con permesso di soggiorno. “Non possiamo garantire che chi fa un tirocinio continui sempre a lavorare, dipende dal momento”, dice Elisabetta Martini di Cigala. Ma nel frattempo si imparano i rudimenti di un lavoro, in una condizione di legalità. “In realtà è la mole di burocrazia, non i problemi linguistici o di comportamento, a rendere difficili i tirocini degli stranieri”, continua.

“È un modello che si basa sulla fiducia. Si sparge la voce che questi ragazzi lavorano bene, iniziano altri tirocini o contratti lavorativi” – Zoe, operatore di Pangea

Nella provincia di Siena, a forte vocazione agricola, corsi di formazione nel settore si svolgono ogni anno; i richiedenti asilo hanno iniziato a frequentarli. Yari, un ragazzo del Benin ospite a San Giusto, sta seguendo un corso per addetto alla potatura. Potare bene è un’arte, difficile e decisiva per l’esito del raccolto. “È un corso gratuito di 180 ore”, spiega Cristina Pizzetti, direttore di “Agricoltura è vita Etruria”, l’agenzia per la formazione della Confederazione Italiana Agricoltori “prevede 95 ore di lezione e il resto di stage”. Il corso viene promosso dall’ente anche attraverso i Centri per l’impiego. È aperto a tutti, italiani e non: basta essere maggiorenni, disoccupati, conoscere l’italiano a livello base. “Quest’anno abbiamo 15 partecipanti, di cui quattro stranieri provenienti da Albania, Marocco, Senegal e Benin”. Ma esiste una effettiva domanda di lavoro? “Cerchiamo di formare diverse figure professionali ogni anno, dal trattorista all’operaio generico. Il rapporto con le aziende è cresciuto, prendono più facilmente i corsisti in stage. Se sono bravi, possono richiamarli per un contratto”.

Durante una lezione teorica Lamberto Ganozzi, il docente, parla della potatura dell’olivo. Come si trovano gli stranieri? “Qualche problema di lingua, molti termini tecnici, ma in genere hanno motivazione e interesse”. In aula si vedono africani e italiani seduti vicino, qualche donna in un gruppo a maggioranza maschile. L’integrazione qui sembra semplice, si tocca con mano. Giulia, 31 anni: “Ho studiato lingue, poi ho smesso. I miei coltivavano la terra, mi piacerebbe lavorare nel settore”. Come lei, vengono dalla campagna Rita, ragioniera, e Marco, che per anni ha fatto il barista. Lui è il più fortunato, ha già una proposta di lavoro. Tra i banchi c’è Yari, è molto giovane e un po’ timido ma ha le idee chiare. Ha già seguito un corso sulla manutenzione delle aree verdi e sta facendo lo stage a San Giusto: “Voglio trovare lavoro qui, mi piace tutto”. Ripassa con gli altri i tre tipi di potatura della vite: ad alberello, a cordone speronato e a guyot. Non sarà una strada facile, la sua, ma rispetto alla vita dei braccianti stranieri in Italia almeno è partito bene.

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