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Diritti / Varie

Chi salva i migranti sfidando la fortezza Europa. Anche per mare

Studenti, preti e ong: dinanzi alla chiusura delle frontiere e all’aumento del numero di sbarchi, si diffondono iniziative private di assistenza e solidarietà. Sulla terraferma e nel Mediterraneo.
Tra loro c’è anche Abba Mussie Zerai, che "Time" ha inserito nell’elenco delle 100 persone più influenti del Pianeta 

Tratto da Altreconomia 180 — Marzo 2016

"Scusate, devo rispondere”. Appena sente squillare il cellulare, il prete sospende la messa. “È un’emergenza” dice scusandosi ai presenti. Nessuno si scompone per l’improvvisa interruzione: i parrocchiani ormai ci hanno fatto l’abitudine. Abba Mussie Zerai non spegne mai il telefono, nemmeno quando deve predicare la parola di dio. Perché in ogni momento potrebbe arrivare una chiamata di soccorso, un barcone disperso, un gommone in difficoltà nel canale di Sicilia. Soprannominato “la cabina dei migranti”, questo prete nato quarant’anni fa ad Asmara, in Eritrea, ha trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita a rispondere a migranti dispersi in mezzo al Mediterraneo, a registrare posizioni GPS e a comunicarle alle squadre di ricerca e soccorso. Ogni etiope o eritreo candidato alla partenza in mare lo conosce di fama e si appunta il suo numero di telefono in qualche luogo sicuro prima di avventurarsi nella traversata. Tutti sanno che è affidabile, che risponde a qualsiasi ora del giorno o della notte, persino quando officia la messa, e che ormai conosce chiunque nelle squadre di soccorso ufficiali, sia in Italia che a Malta. Candidato al premio Nobel per la pace del 2015, questo piccolo ma agguerrito prete dalla barba sale e pepe arrivato in Italia nei primi anni Novanta per studiare e trasferitosi in Svizzera dopo aver passato alcuni anni in Vaticano, ha contribuito a salvare migliaia di vite. Oggi, lavora fianco a fianco con la guardia costiera e con la marina italiana. Ma in passato, quando l’Italia aveva adottato per un periodo la politica di respingere in mare verso la Libia migranti e richiedenti asilo, non ha lesinato le critiche definendo pubblicamente quella prassi “crudele, disumana e illegale” (nel 2012, la Corte europea dei diritti dell’uomo gli ha dato ragione, sanzionando il governo italiano).

Abba Mussie non è l’unico del suo genere. Nawal Sufi è una studentessa italo-marocchina che vive a Catania. Nel 2013, quando i rifugiati siriani hanno cominciato a sbarcare a migliaia in Sicilia, in provenienza dall’Egitto o dalla Libia, ha pensato che doveva assolutamente fare qualcosa. Andava sui luoghi degli sbarchi, cercando di aiutare i migranti appena arrivati dando loro vestiti, carte telefoniche, informazioni o qualsiasi altra cosa poteva essere utile. In poco tempo, è diventata l’equivalente arabo di Abba Mussie. Come lui, si è trasformata nel punto di contatto tra i migranti in viaggio e le autorità italiane che si occupavano di soccorrerli. Il suo numero di cellulare è diventato un articolo imprescindibile nel kit di sopravvivenza di ogni rifugiato siriano in partenza per il mare. Lei ogni volta chiamava i team di soccorso e postava su Facebook informazioni relative ai naufragi o agli abusi sofferti dai migranti nei Paesi di transito, come la Libia e la Turchia. Quando poi arrivavano a terra, saltava da una parte all’altra della Sicilia orientale per andare a incontrarli, dare loro assistenza in arabo, aiutarli a comprare una sim card che funzionasse in Europa e a proseguire il viaggio in autobus o treno senza finire nelle mani degli “scafisti di terra”, capaci di estorcere loro fino a 200 euro a testa per un passaggio in macchina da Siracusa a Catania. Oggi la ragazza -che si è recentemente raccontata nel libro “Nawal, l’angelo dei profughi” scritto dal giornalista Daniele Biella per le edizioni Paoline- è a Lesbos, in Grecia, nuovo punto caldo della rotta che porta i siriani in Europa. Anche lì, fa lo stesso servizio: riceve le chiamate, aiuta i profughi in transito, cerca come può di dare una mano. Con una differenza in più: i greci sono meno solerti degli italiani nel prestare assistenza in mare. Le distanze sono minori e spesso i gommoni arrivano direttamente in spiaggia. Così Nawal, insieme ad altre centinaia di attivisti venuti da ogni parte d’Europa e del mondo, partecipa direttamente ai soccorsi. “Lesbos è una situazione inaccettabile per l’Europa del 2015”, ha detto recentemente al quotidiano la Repubblica riferendosi alle decine di vittime, molti anche bambini, che si stanno registrando su quella rotta proprio a causa della lentezza dei soccorsi ufficiali. All’inizio del 2016 anche l’artista cinese Ai Weiwei è andato sull’isola greca per vedere con i propri occhi e annunciato la sua intenzione di creare un memoriale per i migranti morti.
 
Abba Mussie e Nawal Sufi sono “angeli dei profughi” ma lavorano sulla terraferma. Altri, con mezzi più potenti, hanno deciso di impegnarsi direttamente in mare. “L’omelia del papa a Lampedusa è stata per me una specie di appello all’azione”, ricorda Regina Catrambone. Nel luglio 2013, Francesco è andato sulla piccola isola delle Pelagie per il primo viaggio pastorale del suo pontificato. Nel suo sermone, ha rimproverato il ricco mondo occidentale per la sua insensibilità nei confronti delle sofferenze dei migranti. In un discorso potente trasmesso in mondovisione, ha denunciato quella che ha definito la “globalizzazione dell’indifferenza”. È stato quello stesso giorno che questa donna 39enne di Reggio Calabria ha deciso con il marito americano Christopher di lanciare la Migrant Off Aid Station (MOAS), la prima ong al mondo specializzata in ricerca e soccorso in alto mare. Hanno investito tutti i loro risparmi nell’impresa: con 8 milioni di dollari, hanno comprato una barca di 40 metri chiamata Phoenix, assunto un team di specialisti in soccorso e cominciato a navigare nel Mediterraneo a caccia di migranti in difficoltà. 
 
Questi ex broker di prodotti assicurativi in zone di guerra hanno trovato così una nuova ragione di vita: “Abbiamo messo le nostre risorse e la nostra passione in qualcosa in cui crediamo veramente. Ogni singola persona soccorsa ci dà la sensazione che stiamo spendendo il nostro denaro nel modo migliore”. Il loro slogan “nessuno merita di morire in mare” si è dimostrato efficace: in due anni sono riusciti a trarre in salvo 18mila persone nel canale di Sicilia. Oggi si sono spostati anche loro a Lesbos, dove operano con un’altra nave e pianificano di ampliare i propri interventi nell’Oceano Indiano in soccorso dei profughi rohingya in fuga dalla Birmania. E il loro esempio non è rimasto isolato. L’estate scorsa, l’ong internazionale Medici senza frontiere (Msf) si è unita all’azione. All’inizio, ha stretto un’alleanza operativa con il MOAS, fornendo una squadra medica professionista a bordo della Phoenix. Poi, ha noleggiato a sua volta due navi cargo impegnate direttamente nelle operazioni di ricerca e soccorso. Infine un imprenditore tedesco, Harold Hoeppner, ha lanciato l’operazione Sea Watch, con una piccola barca di stanza a Lampedusa che non carica i migranti ma funziona come servizio d’emergenza, dando loro cibo e acqua, giubbotti salvataggio e lanciando delle zattere galleggianti in mare a cui i migranti in difficoltà possono aggrapparsi in attesa dell’arrivo dei mezzi di soccorso. L’estate scorsa, buona parte delle operazioni di salvataggio sono state portate avanti da questi soggetti privati, integrati nel commando generale coordinato dalla capitaneria di porto di Roma.
 
Come Nawal e i membri del MOAS, anche Msf si è spostata a Lesbos. Il calo invernale degli arrivi nel Mediterraneo centrale e l’aumento della rotta est dalla Turchia verso la Grecia, sempre più battuta dai siriani che evitano la Libia, ha suscitato una vera e propria ondata di solidarietà internazionale. Oltre ai vecchi soggetti, sono scesi in campo Greenpeace e una brigata di pompieri spagnoli del gruppo Proem-Aid. Un gruppo di questi ultimi, a metà gennaio 2016, è stato brevemente arrestato mentre salvava i migranti, con l’accusa di “traffico di esseri umani”. Soccorrere i profughi in un’Europa che si chiude sempre di più e che si mostra sempre più insofferente nei confronti di questo flusso può rivelarsi un’impresa rischiosa. 
Mentre l’Unione europea sta impiegando notevoli sforzi nella chiusura delle proprie frontiere, in modo da impedire l’accesso sia agli immigranti sia ai richiedenti asilo, tutti questi gruppi di militanti e cittadini mostrano un’attitudine completamente diversa. Si impegnano in prima persona, sfidano le leggi, sia in mare sia sulla terraferma. Vogliono partecipare attivamente, nella consapevolezza che quello che sta accadendo alle nostre frontiere sia un fenomeno epocale. In tutti i principali punti di transito delle rotte migratorie, movimenti dal basso stanno spuntando come funghi per fornire assistenza. Quando un grande flusso di migranti, provenienti per lo più dalla Siria, ha cominciato a prendere la cosiddetta rotta orientale, attraversando vari confini nei Balcani, in migliaia hanno deciso di aiutarli. Nel settembre 2015, centinaia di cittadini hanno formato una vera e propria carovana di macchine per andare a prendere in Ungheria e portare in Austria i siriani che stavano viaggiando a piedi. 
 
Tecnicamente, anche loro come i pompieri spagnoli a Lesbos avrebbero potuto essere accusati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Ma a loro non importava. Hanno ritenuto fosse la cosa più giusta da fare e sono andati lì brandendo grossi poster con scritto in inglese: “Welcome refugees”. Molte famiglie, dalla Germania all’Italia (nel nostro Paese, nel 2015, sono giunte dal Mediterraneo 153.842 persone, per quasi il 20% provenienti dalla Nigeria), hanno dato la disponibilità a ospitare rifugiati nelle proprie case. In tutta Europa, singoli individui, gruppi, associazioni si sono sostituiti ai poteri pubblici nel dare assistenza. In Macedonia, una donna è impegnata a fornire cure mediche ai migranti afghani che risalgono la rotta in bicicletta. A Nizza, in Francia, volontari della Croce rossa distribuiscono pasti caldi a uomini e donne che hanno appena traversato il confine a piedi tra le montagne; più a Nord a Calais, un blogger attivista registra e posta su Internet ogni minimo cambiamento nelle cosiddette giungle, i campi informali costruiti dai migranti che vogliono attraversare la Manica per raggiungere il Regno Unito.
 
Questo diffondersi di solidarietà civica, da un capo all’altro del continente, è sorprendente. Ma qual è il senso di tutto ciò? Quali sono le conseguenze di questo impegno? Questi soggetti privati non si staranno facendo carico di compiti che dovrebbero essere appannaggio delle autorità statali? Così facendo, stanno mettendo a nudo delle lacune delle politiche pubbliche o piuttosto spianando la strada a un disimpegno da parte dello Stato? Regina Catrambone non vuole gettare olio sul fuoco. Sa bene che la sua impresa può essere percepita come una critica ai responsabili politici che non stanno facendo abbastanza per salvare le persone in mare. 
Ma questa non è la ragione per cui ha fondato il MOAS. “Il nostro approccio è diverso. Crediamo che se le autorità pubbliche non sono in grado di assicurare un servizio, un filantropo privato dovrebbe impegnarsi personalmente”, sostiene. “Non vogliamo sostituirci allo Stato, solo affiancarlo”. Altri sono più diretti: “Le politiche di contenimento e i muri di deterrenza non sono la risposta adeguata a questa crisi umanitaria globale. Continueranno a spingere le persone a compiere lunghi e pericolosi viaggi in balia delle organizzazioni di scafisti”, ha sostenuto di recente Medici senza frontiere. Una cosa è tuttavia sicura: per giustificare le loro politiche repressive, i leader europei sostengono che le loro opinioni pubbliche non accetterebbero mai un numero più alto di migranti, soprattutto in questo periodo difficile di crisi economica. Tutti i leader europei parlano di cittadini stanchi dei profughi, di una percezione generale di invasione, di una crescente xenofobia. Di conseguenza, mettono in piedi politiche di deterrenza, quote da non oltrepassare, rimpatri da effettuare, fino alle misure odiose di sequestro dei beni ai profughi per finanziare la loro permanenza, come è stato fatto in Svizzera e Danimarca. 
La stessa libera circolazione sancita dal trattato di Schengen, che l’anno scorso ha compiuto trent’anni, è oggi rimessa in discussione. Ma l’opinione pubblica europea è così spaventata dai flussi di migranti? Ha davvero questa percezione di vivere sotto l’assedio di uomini, donne e bambini in fuga dalle guerre, che cercano principalmente un riparo dove ricominciare a vivere? La solidarietà dal basso che si registra da una parte all’altra del continente mostra che un’altra Europa esiste. Forse è minoritaria, ma è comunque parecchio più avanzata di quella rappresentata dai governi. 

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