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Chi paga i conti degli speculatori – Ae 94

Quando il Fondo monetario internazionale valuta in quasi 1.000 miliardi di dollari le perdite legate al tracollo dei mutui subprime, è chiaro che la crisi appare assai più dura di quanto si prevedesse solo qualche mese fa (vedi Ae 89).Si…

Tratto da Altreconomia 94 — Maggio 2008

Quando il Fondo monetario internazionale valuta in quasi 1.000 miliardi di dollari le perdite legate al tracollo dei mutui subprime, è chiaro che la crisi appare assai più dura di quanto si prevedesse solo qualche mese fa (vedi Ae 89).
Si tratta di enormi minusvalenze che stanno travolgendo i conti di molte banche, compagnie d’assicurazione, fondi pensione e fondi hedge, ma che sembrano destinate ad avere ripercussioni sull’intera economia planetaria, contribuendo a rimuovere le fragili paratie fra sistemi finanziari e sistemi produttivi.

Gli artifici dell’ingegneria finanziaria -di cui i subprime sono ormai un paradigma- avrebbero dovuto limitare il rischio, disperdendolo fra più soggetti. In realtà hanno mostrato gravi carenze e hanno seminato una profonda paura.

Per evitare guai peggiori, le banche centrali si sono adoperate a più riprese con iniezioni di liquidità (cioè elargizioni di denaro) agli operatori, correndo il pericolo però di scatenare spirali inflazionistiche (cioè aumento dei prezzi), oltre a ripristinare forme di interventismo statale che fanno pagare ai contribuenti i costi dell’“azzardo morale” dei soggetti finanziari. La Commissione europea, ad esempio, sta valutando attentamente sia gli aiuti del governo britannico alla banca Northern Rock e i sussidi erogati dai Land tedeschi a tre istituti creditizi regionali, sia quelli indirizzati dalla Federal Reserve ai colossi come JP Morgan che operano anche in Europa. Alla faccia del libero mercato, il sostegno pubblico rischia infatti di creare situazioni di monopolio. E l’artificiosa alimentazione di tale monopolio trova le proprie paradossali motivazioni nella gravità delle conseguenze che derivano dagli eccessi speculativi.

La mancanza di trasparenza nei bilanci e l’insicurezza dilagante fra le stesse istituzioni finanziarie hanno amplificato a dismisura danni inizialmente ritenuti circoscritti, tanto da indurre un sovvertimento radicale dei comportamenti persino delle istituzioni più ortodosse del “mercatismo”. Dominique Strauss-Kahn, alla testa del Fondo monetario internazionale, ha addirittura auspicato la creazione di una “terza linea di difesa”, rappresentata dall’impiego continuativo di risorse pubbliche, per proteggere le banche ed evitare la scomparsa della liquidità; nella stessa prospettiva Ben Bernanke ha consentito alla Federal Reserve di far accedere al proprio credito le banche d’investimento e deciso di cedere i buoni del Tesoro in possesso della banca centrale Usa in cambio di titoli “spazzatura”.

Mario Draghi, presidente della Banca d’Italia, e il Financial Stability Forum, consapevoli della gravità della situazione, hanno steso severe raccomandazioni per gli operatori finanziari, invitandoli ad abbandonare la pratica dell’indebitamento selvaggio. È chiaro quindi che l’asprezza della crisi in atto sta provocando avvertibili modifiche nella visione a lungo coltivata di un mercato finanziario in grado di generare ricchezza e di sanare le proprie contraddizioni “inventando” nuovi strumenti e coinvolgendo sempre nuovi soggetti.

Al contempo, tuttavia, per uscire dalle difficoltà scatenate dal crollo dei rendimenti dei valori mobiliari stanno prendendo corpo alcune pratiche molto pericolose.

Se i titoli di settori fondamentali come quelli bancari, assicurativi e immobiliari registrano cadute vertiginose, milioni di investitori in giro per il pianeta tendono ad orientarsi verso altre destinazioni di maggiore resa. In tale ottica i contratti relativi alle commodities (ovvero riso e frumento, insomma cibo) stanno diventando veri e propri beni rifugio al pari dell’oro, grazie a prezzi in costante ascesa per effetto delle previsioni di una domanda mondiale in marcato aumento.

Questo processo contribuisce in maniera decisiva all’esplosione dell’“agrinflazione”, dell’impennata dei prezzi dei prodotti agricoli attraverso la loro finanziarizzazione.

La crisi dei mutui innesca così la ricerca di impieghi remunerativi in ambiti molto delicati che si legano in modo diretto all’alimentazione primaria del pianeta.

Di nuovo, la soluzione finanziaria tende pericolosamente a prevalere e a generare ulteriori danni.



Alessandro Volpi insegna Storia contemporanea presso al Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Tra le sue pubblicazioni, Le società globali. Risorse e nuovi mercati (Carocci, 2002) e La fine della globalizzazione? (Bfs, 2005). Per Altreconomia ha pubblicato Mappamondo postglobale (2007)

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