Ambiente / Reportage
Che cosa fare dopo quattro alluvioni in 17 mesi. Le voci dall’Appennino bolognese

Dal maggio 2023 una serie di eventi estremi senza precedenti ha colpito l’Emilia-Romagna. L’ultimo ha investito anche la piccola Val di Zena. Superata l’emergenza, mentre la popolazione aspetta ancora i ristori, i rappresentanti dei Comuni, della società civile e della comunità scientifica s’interrogano su come mitigare il rischio idraulico e idrogeologico negli anni a venire
“Quattro alluvioni in 17 mesi. Nell’ultima, quella del 19 ottobre 2024 in cui morì un ventenne, caddero in media 160 millimetri di pioggia in 24 ore. Fenomeni rarissimi nella seconda metà del Novecento. Ora, col riscaldamento globale, aumentano la temperatura del mare e l’evaporazione e cambia il ciclo dell’acqua. L’aria trattiene più umidità e all’arrivo di correnti fredde scoppiano violenti temporali, anche fuori stagione. L’impatto è maggiore che in estate perché i boschi sono spogli e i suoli saturi”.
Federico Grazzini, meteorologo di Arpae Emilia-Romagna, riassume così la dinamica degli eventi estremi che hanno sconvolto la Regione negli ultimi due anni. Piogge tanto forti e concentrate da non poter essere assorbite dai terreni e smaltite dai corsi d’acqua, specie quelli con un bacino piccolo.
Tra questi c’è il torrente Zena, la cui valle si estende per 40 chilometri fra le prime pendici dell’Appennino bolognese nei Comuni di San Lazzaro di Savena, Pianoro, Loiano e Monterenzio. Abitata da circa duemila persone, è un polmone tutelato dal Parco regionale dei Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa e dalla Riserva naturale Contrafforte Pliocenico. Un paesaggio splendido ma fragile. Il territorio, composto soprattutto da argilla e arenaria, è a rischio frane e smottamenti in caso di precipitazioni estreme. Con l’abbandono delle zone rurali, l’agricoltura non assicura più la regimazione delle acque e la cura dei terreni. Infine nel tempo è venuta meno la manutenzione di ruscelli, fossi e torrenti. Tra la violenza delle piogge e la vulnerabilità dei luoghi, l’impatto delle alluvioni è stato devastante: intere frazioni allagate, strade divelte, muri di contenimento crollati.
Nell’immediato gli enti locali hanno dovuto garantire il ripristino di strade, rete elettrica e internet, la rimozione del fango dalle case e la pulizia di fogne e condotte idriche. “Poi sono iniziati gli interventi di somma urgenza dell’Agenzia regionale per la sicurezza territoriale e la protezione civile, come il taglio selettivo degli alberi nei punti in cui le sponde verranno sbancate per allargare l’alveo del torrente -racconta la vicesindaca di San Lazzaro di Savena, Sara Bonafè-. Abbiamo anche azzerato l’imposta della Tari e dimezzato l’Imu per sostenere la popolazione e installato un idrometro e un pluviometro sul ponte della località Farneto: d’ora in poi sapremo in tempo reale qual è il livello dello Zena e quanta pioggia cade. Ma rimane il problema del fango, che non sappiamo dove mettere, e quello dei rifiuti. L’acqua ha portato giù plastiche, lamiere, materiali chimici. Pochi privati hanno i mezzi per rimuoverli dalle loro proprietà, per non parlare dell’alveo: difficile raccogliere tutto, anche col volontariato”.
Ai danni materiali si accompagnano insicurezza e paura. Finite le evacuazioni e superata l’emergenza, molte persone non hanno comunque voluto tornare alle proprie case e anche chi è rimasto non è tranquillo. “Questo sconforto è una sconfitta per qualunque istituzione -osserva il sindaco di Pianoro, Luca Vecchiettini-. Inoltre rimane da risolvere pienamente il nodo dei ristori. Finora è stata stanziata solo la metà dei contributi per la prima alluvione, ancora niente per le successive. All’inizio di quest’anno Fabrizio Curcio ha sostituito Francesco Paolo Figliuolo nel ruolo di Commissario straordinario alla ricostruzione post-alluvione. Appena la struttura che dirige potrà erogare denaro, si attiveranno due linee di finanziamento: il Contributo autonomo sistemazione (Cas), 500 euro al mese per chi ha avuto la casa inagibile, e il Contributo di immediato sostegno (Cis) per chi ha dovuto fare lavori, 5.000 euro massimo per i danni delle alluvioni del 2024, cui se ne potranno aggiungere altrettanti per chi era stato colpito anche da quelle del 2023. Misure definite in febbraio, poi in aprile è stata diffusa la modulistica che serve per accedervi. Ma l’ordinanza del Cis emessa dal Dipartimento nazionale di Protezione civile considera le piogge dell’autunno del 2024 come un unico evento calamitoso, quindi chi aveva sostenuto spese per l’alluvione di settembre per poi subire i danni di quella di ottobre non può accedere al contributo per entrambe. I Comuni stanno chiedendo invece che vengano riconosciuti contributi distinti per i singoli eventi alluvionali”.
Per rappresentare le persone alluvionate e aiutarle a richiedere i ristori, parte della cittadinanza ha costituito il Comitato Val di Zena. Ne parla l’ex portavoce Claudio Pasini: “Siamo un interlocutore importante per le istituzioni: la frammentazione delle loro competenze è elevata, come il rischio scaricabarile. Dei corsi d’acqua si occupano la Regione e l’Agenzia regionale per la sicurezza territoriale e la protezione civile. Strade e ponti sono di competenza della Città metropolitana. Poi l’Ente parchi Emilia Orientale copre la gestione urbanistica e ambientale nelle aree protette, l’Autorità di bacino distrettuale del fiume Po (Adbpo) programma e progetta gli interventi che sono realizzati dalla Regione e dalla Protezione civile, e la multiutility Hera è responsabile della rete fognaria. Infine il Consorzio della bonifica renana gestisce la rete dei canali artificiali di pianura mentre in collina e montagna realizza interventi di contrasto al dissesto idrogeologico, insieme agli altri enti pubblici”.
“Condividiamo quanto si sta facendo adesso, come la rimozione dei detriti, che avevano creato vere e proprie dighe -continua Pasini-. Ma occorre anche dare una nuova sagoma al torrente per ridargli portata. Perché non si è agito prima? Nel Piano stralcio per l’assetto idrogeologico del 2005, aggiornato nel 2016, l’Autorità di bacino interregionale del fiume Reno (poi assorbita da Adbpo) aveva individuato criticità e possibili interventi con tanto di costi. Ritenevano insufficiente la portata dello Zena nei tratti in cui attraversa le frazioni Farneto e Botteghino di Zocca. Se chi ha comprato casa l’avesse saputo, forse non sarebbe venuto ad abitare qui. Ora, aumentando il rischio idraulico e idrogeologico, crolla il valore di terreni e abitazioni, nessuna delle quali abusiva. Le istituzioni sono state colpevolmente disattente in passato. Stiamo facendo l’indispensabile perché le nostre case non vadano in malora ma prima di fare lavori più importanti e costosi molti attendono gli interventi di messa in sicurezza della valle”.
A questo scopo, sarà utile uno studio scientifico richiesto dal Comitato Val di Zena e finanziato da una donazione dei parlamentari del Movimento cinque stelle. È diretto dal professor Stefano Orlandini, docente di Idrologia e costruzioni idrauliche all’Università di Modena e Reggio Emilia, e sulla base dei suoi risultati Regione e Autorità di bacino potranno decidere come intervenire. Ad esempio allargando lo Zena per aumentarne la portata, realizzando opere di difesa idraulica e identificando le zone alluvionali: terreni da lasciare inalterati affinché l’acqua in eccesso possa inondarli senza fare danni.
Tuttavia esiste il timore che i margini di manovra siano ridotti. “I versanti sono scoscesi, il fondovalle stretto, -spiega Paride Antolini, ex presidente dell’Ordine dei geologi dell’Emilia-Romagna-. Eventuali briglie perderebbero la loro funzione se le frane le riempissero di materiale. Anche lo spazio per invasi che raccolgono l’acqua in eccesso è poco. Nelle aree pianeggianti si è costruito, la terra scavata è finita nelle scarpate del torrente. Così l’alveo è stato ristretto e sono sorte case a pochi metri di dislivello più in alto. Dragare il fondo e rimuovere detriti rischia di far passare un volume maggiore d’acqua più in fretta: dovremmo piuttosto cercare di rallentarla e farla espandere, soprattutto a monte”.
“In questo processo ci aiuta la vegetazione, che consolida le sponde e favorisce la permeabilità del suolo -aggiunge Bruna Gumiero, docente di Ecologia dell’Università di Bologna-. Giusto rimuovere piante malate o pericolanti o fare dei tagli mirati dove il torrente è stato ristretto ma qui gli abbattimenti sono stati indiscriminati. Non è la prima volta: nel 2014 furono tagliati migliaia di alberi lungo l’argine del torrente Savena, qui vicino. Aumentò l’erosione, si abbassò l’alveo e rischiarono di crollare i piloni di un ponte. Spesso tra l’altro le ditte che eseguono i tagli portano via i tronchi ma lasciano sul posto le ramaglie, che insieme agli alberi morti portati dalle frane finiscono in alveo e occludono i ponti. È raro che le piene possano sradicare piante vive”.
Il problema però non riguarda solo chi fa i lavori. “Più in generale in Italia ci preoccupiamo troppo del trasporto d’acqua e cerchiamo di accelerarlo rettificando fiumi e torrenti -prosegue Gumiero-. Ma esso tende naturalmente a rallentare grazie ad anse e piane alluvionali dove l’acqua si ferma, percola e alimenta le falde. È questo il miglior aiuto contro le piene. Gli eventi estremi richiedono una visione interdisciplinare e lungimirante, non soluzioni di corto respiro. Costruire invasi, ad esempio, espone l’acqua raccolta all’evaporazione e allo sviluppo di alghe quando fa caldo, col rischio di tossicità. E incidere un fiume abbassandone l’alveo a monte, cosa fatta spesso nell’Appennino, facilita l’intrusione dell’acqua salata del mare lungo le coste e in bassa pianura. La nostra sicurezza dipende invece dall’arresto del consumo di suolo e dalla cura dell’ambiente naturale. Dare spazio ai fiumi, in questo senso, non vuol dire allargare l’alveo ma ripristinare le piane alluvionali con la loro vegetazione. Concetti nuovi per il nostro Paese ma che poggiano su un’ampia ricerca scientifica. All’estero se ne parla da oltre vent’anni e anche alcune direttive europee vanno in questa direzione”.
Su una cosa c’è unità d’intenti: se non sarà possibile annullare gli effetti delle alluvioni quantomeno bisognerà mitigarli. “Non farlo potrebbe portare allo spopolamento della valle ed è la cosa che più mi preoccupa, -riflette Massimo Paganini, presidente dell’associazione Parco museale della Val di Zena, che promuove il turismo lento e organizza eventi come concerti e campi estivi-. Sappiamo che la struttura commissariale varerà un decreto sulle delocalizzazioni volontarie. Ma delocalizzare chi, dove, come, quando e a quali condizioni? La gente deve poter continuare a credere che vivere qui è ancora possibile. Con poche attività economiche, non siamo un bacino di soldi e voti. Però non accettiamo che non si investa in questo territorio, la cui natura è preziosissima in un contesto di emergenza climatica ed ecologica. Oltre a ciclismo ed escursionismo, perché non sviluppare agro-ecologia, ricerca e divulgazione scientifica? La Città metropolitana ha tirato a lucido la valle per il passaggio di Mille miglia e Tour de France e dopo se n’è disinteressata. Non vogliamo vedere i nostri paesi svuotati solo perché un cinico conto delle risorse impone di lasciarli indietro”.
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