Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Esteri / Attualità

Che cosa è diventata la Palestina che raccontava Vittorio Arrigoni

Negli ultimi dieci anni la situazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania è ulteriormente peggiorata. I civili hanno continuato a subire attacchi militari da Israele, autoritarismo interno e chiusura dei confini

Tratto da Altreconomia 236 — Aprile 2021
Una donna palestinese cammina a Gaza accanto alle macerie di un edificio distrutto da un attacco aereo israeliano nel luglio 2014 © UN Photo/Shareef Sarhan

Se Vittorio Arrigoni fosse ancora vivo, probabilmente starebbe a Gaza. Senza dubbio in questi 10 anni, dal suo blog Guerrillaradio o dai social, avrebbe continuato a monitorare e raccontare tutto ciò che ruota attorno alla Palestina. A partire da Colonna di nuvole e Margine protettivo, le maggiori operazioni israeliane lanciate contro la Striscia, che hanno provocato rispettivamente, nel 2012, la morte di 174 palestinesi (101 civili) e sei israeliani (quattro civili) e, nel 2014, di oltre 2.100 palestinesi (69% civili) e 73 israeliani (sei civili).

Gli scontri armati non si sono mai interrotti: dagli attacchi dell’esercito israeliano ai pescatori e ai contadini sul confine, agli omicidi mirati di palestinesi, e dall’altra al lancio di razzi. È stato un continuo di trattative mediate da Egitto, Qatar o Turchia. In cambio della pace venivano concesse più miglia pescabili, merci, aperture o gas, in un tira e molla devastante per la popolazione.

Nel 2017 l’Onu annunciò che la Striscia sarebbe diventata invivibile nel 2020, una facile profezia. Di certo in 10 anni Gaza -stretta da un assedio che dura dalla salita al potere di Hamas nel 2007- è diventata più povera e affamata: nel 2000 erano 80mila le persone che dipendevano dall’Unrwa, l’Agenzia Onu per i profughi palestinesi, ora sono oltre un milione. La disoccupazione supera il 50%, il 97% della popolazione non ha accesso all’acqua pulita e ha poche ore di elettricità al giorno. Ma la situazione non è meno grave in Cisgiordania. Secondo Oxfam, in tutti i Territori Occupati, a fine 2019, 2,5 milioni di persone dipendevano dagli aiuti umanitari e due milioni vivevano senza acqua pulita.

“Vittorio arrivò a Gaza dopo che Hamas aveva vinto le elezioni, nella divisione fisica, politica e sociale con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) -ricorda Meri Calvelli, storica cooperante, rappresentante nel Paese per l’Associazione di cooperazione e solidarietà (Acs)-. Una divisione che da allora non si è mai risanata: un’intera generazione è cresciuta con tre conflitti, senza mai poter uscire dalla Striscia. La società civile ha visto solo chiusure, attacchi militari, autoritarismo interno spietato. Parte dei giovani che ai tempi di Vittorio erano diciottenni e oggi sono trentenni non ha mai votato né conosce la partecipazione politica; molti sono scappati e diventati profughi con diritto d’asilo in Paesi europei e non possono tornare. Il collasso delle infrastrutture e dei servizi di base è stato inarrestabile: non ci sono strutture ospedaliere adeguate, manca totalmente un sistema idrico potabile e un disastro ambientale è stato causato dalla contaminazione delle acque e dei rifiuti. Ma la grande tragedia di Gaza -continua Calvelli- è la chiusura dei confini e l’impossibilità di muoversi, diventata ormai la normalità”.

Nel gennaio scorso, secondo l’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, hanno attraversato il valico israeliano di Erez 284 persone. Prima del 2000 erano oltre mezzo milione al mese. Rafah, il valico controllato dall’Egitto, invece, è rimasto chiuso per due mesi con oltre 7.000 persone pronte per lasciare Gaza, mentre migliaia di residenti erano bloccati in Egitto o all’estero.

“Parte dei giovani che ai tempi di Vittorio erano diciottenni e oggi sono trentenni non ha mai votato né conosce la partecipazione politica” – Meri Calvelli

Arrigoni avrebbe continuato a denunciare il disinteresse della comunità internazionale verso la Striscia, dando certamente risalto alla “Grande marcia del ritorno”, le manifestazioni iniziate a fine marzo 2018 e che ogni venerdì per quasi due anni hanno visto sfilare migliaia di gazawi fino al confine con Israele, rivendicando il diritto al ritorno dei profughi palestinesi (sancito dalla risoluzione Onu 194).

Centinaia le vittime del fuoco israeliano: ufficialmente avvicinatesi troppo, per aver tentato di sconfinare, incendiato copertoni, lanciato sassi o palloni incendiari, ma sono stati colpiti anche medici, giornalisti e bambini. Numerosissime le persone che hanno perso un arto, una futura generazione di mutilati. “Le marce sono terminate -dice Calvelli- ma la frustrazione e la stanchezza sono rimaste un grande problema. Nessuna dignità, nessuna speranza, nessun orizzonte per Gaza”. Se c’è un nome che Arrigoni avrebbe pronunciato spesso con veemenza in questi anni è sicuramente quello dell’ex presidente americano, Donald Trump, rivelatosi uno dei migliori amici del governo israeliano di Benjamin Netanyahu. Eletto nel gennaio del 2017, ha atteso pochi mesi per dare il via a una serie di dichiarazioni e misure che hanno considerato alla stregua di carta straccia decine di risoluzioni Onu e sentenze di diritto internazionale. Nel dicembre del 2017 Trump ha dichiarato Gerusalemme capitale di Israele, spostando l’ambasciata, emulato poi da diversi Paesi; nel novembre 2019 il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha definito gli insediamenti legali, contrariamente a Unione europea, Corte penale internazionale dell’Aja e Onu che per l’ennesima volta hanno ribadito l’illegalità delle colonie.

Abdullatif bin Rashid Al Zayani, ministro degli Esteri del Bahrain, Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e Abdullah bin Zayed Al Nahyan, ministro degli Affari esteri degli Emirati Arabi Uniti durante la firma degli “Accordi di Abramo” alla Casa Bianca a Washington il 15 settembre 2020 © Oliver Contreras / IPA / Fotogramma

Nel gennaio del 2020 Trump annunciò il cosiddetto “accordo del secolo” tra Israele e Palestina, peccato che riflettesse soprattutto il punto di vista israeliano, tanto da essere rigettato in toto dai palestinesi. Tra i punti principali prevedeva l’annessione israeliana della Valle del Giordano, Gerusalemme capitale di Israele, la creazione di uno Stato palestinese senza esercito, controllo dei confini e dello spazio aereo, la smilitarizzazione delle forze palestinesi e 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali a favore dei palestinesi, ma senza indicare da parte di chi. Il piano non è mai diventato operativo per le resistenze internazionali e le continue tornate elettorali israeliane, quattro in due anni. Infine, nel settembre del 2020, Trump ha messo a segno il colpo grosso: gli Accordi di Abramo, cioè la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti (con l’implicito beneplacito dell’Arabia saudita). Normalizzazione a cui si sono uniti anche il Sudan (uscito così dalla black list dei Paesi sostenitori del terrorismo) e il Marocco (che ha ottenuto il riconoscimento della sovranità sul Sahara Occidentale), e che va letta soprattutto in funzione anti-iraniana e commerciale. Gli accordi hanno indubbiamente segnato una nuova fase per il Medioriente con l’uscita della questione palestinese dalle agende dei Paesi arabi: la Lega araba non ha votato la risoluzione di condanna presentata dal presidente palestinese Abu Mazen.

A riaccendere gli animi nei Territori Occupati è stato invece il recente annuncio (marzo 2021) della Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) dell’apertura di un’indagine su presunti crimini di guerra commessi da Israele, ma anche da Hamas, in particolare nel conflitto del 2014 e durante le “Marce del ritorno”. Grandi le proteste del governo israeliano, che ha accusato la Cpi e la procuratrice capo che ha avviato l’istruttoria, Fatou Bensouda, di antisemitismo.

La Corte penale internazionale dell’Aja ha annunciato a marzo 2021 l’apertura di un’indagine su presunti crimini di guerra commessi da Israele e anche da Hamas durante il conflitto a Gaza del 2014

Arrigoni non si sarebbe perso il grande appuntamento dei prossimi mesi: dopo 15 anni, e a distanza di due mesi da quelle israeliane, si terranno finalmente le elezioni palestinesi, il 22 maggio le parlamentari e il 31 luglio le presidenziali. Infine, a meno di un’inversione di rotta, entro il 2023, dovrebbe essere pronto il gasdotto, finanziato dal Qatar e dalla Ue, per rendere finalmente la Striscia indipendente da un punto di vista energetico. Il gasdotto partirà però da Israele e come tutto quello che entra ed esce da Gaza rischia di diventare un’arma politica. Lo si è visto anche con il Coronavirus, con Israele campione mondiale della vaccinazione di massa, non altrettanto celere nella distribuzione e consegna di vaccini (anche di altri Paesi) ai palestinesi. Tanto da sollevare le denunce di diverse organizzazioni di diritti umani (e in Italia anche un’interrogazione parlamentare), sottolineando gli obblighi per Israele sanciti dalla IV Convenzione di Ginevra. L’Anp, nel programma Covax dell’Organizzazione mondiale della sanità per i Paesi in via di sviluppo, dovrebbe ricevere 400mila dosi di vaccino ma i tempi rischiano di essere lenti. E comunque, come sempre, serve il permesso di Israele.


In dettaglio
L’eredità di Vittorio. Il centro di scambio (culturale) a Gaza

Nel 2012 a Gaza City è nato il Centro italiano di scambi culturali Vik Gaza, “a seguito delle richieste di diversi giovani che conoscevano Vittorio -spiega Meri Calvelli, la direttrice-. Era importante e direi dovuto riconoscere la sua presenza costante in Palestina: ha dato dignità a un popolo non considerato dal resto del mondo. Le nuove generazioni potranno ricordarlo, conoscere un pezzo di storia e il significato della solidarietà”. Il centro ha coinvolto migliaia di abitanti di Gaza in attività educative, sportive, di formazione, emergenza e sostegno, ma sono soprattutto gli scambi culturali che Calvelli sottolinea: “Centinaia di italiani hanno avuto la possibilità di entrare nella Striscia e vedere con i propri occhi la situazione. Mentre donne, uomini, giovani e bambini di Gaza si sono confrontati con culture differenti, ma con la stessa voglia di sapere e comunicare”.

“Il Free style festival -continua Calvelli- con i workshop di arte, musica, sport, media e comunicazione, ha cresciuto un’intera generazione. Le attività sono diventate uno stile di vita: libertà di movimento per denunciare le continue violazioni dei diritti umani e dare respiro e forza a una generazione che ha voglia di volare libera”. In cantiere ora c’è “Green hopes Gaza”, un progetto di riqualificazione sociale e ambientale che ha coinvolto la popolazione per creare uno spazio per i giovani, ma non solo: prevede infatti verde pubblico, un circo, uno skatepark, cinema e arte. Speranze di normalità.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.