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Che cosa dice l’Articolo 27

L’editoriale del numero 128 di Altreconomia, dedicato alle carceri

Tratto da Altreconomia 128 — Giugno 2011

All’indomani del primo turno delle elezioni amministrative, il governo è “andato sotto” alla Camera quattro volte. Non ci interessano i giochi politici, ma il tema sul quale la maggioranza è caduta: l’emergenza carceraria.

Si dice che una società si giudica dallo stato in cui versano i suoi istituti penitenziari, e da come vengono trattati i detenuti. Ecco allora le parole dell’associazione Antigone di Roma, che proprio a maggio ha compiuto vent’anni di impegno per i diritti dei detenuti: “Il governo è stato battuto sulle carceri, giustamente. Esse versano in una condizione tragica, inaccettabile per un Paese civile e democratico. Dall’inizio dell’anno vi sono stati 63 morti negli istituti penitenziari italiani, di cui 24 morti suicidi.

Il sovraffollamento rende la vita quotidiana intollerabile. Tre carceri su quattro sono in condizioni di illegalità poiché non rispettano i dettami -nazionali e internazionali- regolamentari sugli spazi. In 10 metri quadri spesso troviamo sino a 4 persone”.

La politica del governo è stata fallimentare: il sistema carcerario italiano è stato la discarica di quei problemi -sociali- che la politica non ha voluto né saputo affrontare, o ha utilizzato strumentalmente.
Nelle galere patrie ci sono il doppio dei tossicodipendenti della media europea, e il doppio dei cittadini stranieri, la maggior parte dei quali reclusi per problemi legati al permesso di soggiorno. Non quindi per un pericolo, ma perché si è preferito delegare al carcere la soluzione a problemi reali o creati per puri fini propagandistici. “Ora speriamo che il governo -conclude Antigone- adotti un piano di uscita dall’emergenza”.

Tradendo il dettato costituzionale, il sistema carcerario italiano è stato delegato quasi del tutto alla custodia, e non al reinserimento. Come fosse un tappeto sotto il quale nascondere i problemi. Solo che il tappeto è logoro, e nessuno tira fuori una lira per migliorarne le condizioni. Tanto meno per finanziare tutte quelle misure che -davvero- contribuiscono al reinserimento dei detenuti, a partire dalla misure alternative alla pena, e al lavoro in carcere. Quelle misure che alla fine accrescono la sicurezza della società, poiché diminuiscono la possibilità che un detenuto torni a delinquere una volta uscito. A differenza di “piani sicurezza” dalla natura ambigua (e spesso illecita, come nel caso del reato di clandestinità).

In molte delle pagine della rivista che avete tra le mani si parla di cura. Dell’impegno di ciascuno a preoccuparsi delle sorti dei propri vicini. Una società le cui istituzioni non si prendono cura dei suoi appartenenti più svantaggiati -anziani, bambini, detenuti (anche loro, anche se hanno commesso un crimine)- o che ne delega al mercato il compito è una società che non sa prendersi cura di se stessa.

Che si rifugia nell’individualismo tipico del consumismo, dove le relazioni e l’accudimento sono asettiche come uno scontrino fiscale.

 

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