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Economia / Opinioni

Che casa ci resta dopo l’epidemia

© Pietro Tagliapietra-Flickr

L’ambiente domestico è diventato il centro della vita lavorativa e di apprendimento. In Italia, però, il diritto all’abitare non è per tutti. La rubrica “Il dizionario economico dell’ignoto” di Alessandro Volpi

Tratto da Altreconomia 227 — Giugno 2020

Sembra evidente che questa epidemia renderà l’abitazione la principale risorsa sociale ed economica. Si lavorerà molto di più da casa, lì si passerà molto più tempo per la socializzazione, l’apprendimento, lo studio. La casa sarà il luogo di fruizione della cultura e di tutto ciò che occorre, in termini di servizi, se non lo si può ottenere online, lo cercheremo nei pressi dell’abitazione per evitare spostamenti. A casa, in larga misura, passeremo anche le nostre vacanze. Queste banali considerazioni fanno risaltare però un problema centrale. In Italia circa il 75% delle famiglie vive in una casa di proprietà, una percentuale più alta di quella di molti Paesi europei, e la superficie media delle abitazioni supera si aggira attorno ai 100 metri quadrati. Fin qui i dati sembrano incoraggianti; tuttavia, se si scompongono, emerge che la percentuale di case di proprietà è al Nord doppia rispetto al Sud, che le coppie under 35 proprietarie di casa sono solo il 6% e che la metratura e la qualità delle abitazioni sono molto differenti da zona a zona.

Ancora una volta, la media nel caso italiano è assai ingannevole perché la gran parte delle abitazioni risultano molto più piccole di 100 metri, accolgono famiglie “allargate” con figli e nipoti, sono vecchie, in quanto la quota di nuova edificazione in tante parti del Paese è davvero limitata, e sono ben poco servite in termini digitali. A ciò bisogna aggiungere che la nuova edilizia ha preferito metrature quadrate molto ridotte nella prospettiva che la gran parte del tempo venisse trascorsa al di fuori dell’abitazione. C’è quindi una prima serie di difficoltà, di natura edilizia, a “trasformare” simili abitazioni in uffici, luoghi di studio e di socializzazione.

6% la quota di coppie under 35 proprietarie di casa in Italia

Ma esiste anche una questione urbanistica; dal secondo dopoguerra, con alcuni momenti di ripensamento, le strutture urbane hanno teso a decentrare i servizi, a “periferizzarli” in aree più facilmente raggiungibili in auto o con i mezzi pubblici. Si è dissolta così la rete di vicinato sia in termini commerciali sia in relazione ai servizi di fruizione pubblica. Ora l’epidemia ci obbliga a ripensare rapidamente edilizia e urbanistica avendo la casa “omnibus” come punto di riferimento. Avremo bisogno di strumenti urbanistici, con regole chiare che facilitino la ricostruzione della rete, e interventi mirati sul patrimonio immobiliare esistente per favorirne la socialità. Dovremo risolvere poi anche altri problemi. Esiste infatti una parte di popolazione che è priva di una “casa”. Sono circa 650mila i migranti un tempo “irregolari” nel nostro Paese rispetto ai quali si pone il tema dell’assistenza sanitaria e delle condizioni per una regolarizzazione in grado di inserirli nel circuito lavorativo e, soprattutto, nella rete di protezione della loro salute e di quella collettiva.

Ci sono 50mila senza tetto che non dispongono di una dimora stabile e che sono quindi difficilmente individuabili, spesso privi di assistenza sanitaria. A questi dati dovrebbero esserne aggiunti altri, per quanto presentino caratteristiche diverse. In Italia, nell’arco di un anno, vengono emessi quasi 60mila sfratti, solo in parte eseguiti, e gli affittuari morosi a rischio sfratto sono circa il 50% del totale degli affittuari. La natura “democratica” dell’epidemia e le necessità di protezione della popolazione dalla minaccia della sua diffusione non consentono di avere “esclusi” perché l’esclusione significa l’impossibilità di esercitare un controllo sanitario preventivo. Il rischio del diffondersi della malattia diventa la spinta per la ridefinizione di uno Stato sociale inclusivo, unico strumento, ora, a oggettiva tutela di tutti.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.
Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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