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Economia / Varie

C’era una volta il benzinaio

Il mercato è in crisi (-18% nella domanda tra il 2007 e il 2013 sulla rete tradizionale, -46% in autostrada), e i big del petrolio rispondono tagliando sui lavoratori, mentre lo Stato continua ad incassare oltre il 60 per cento in tasse. Il mercato resta molto concentrato: il 51,5% dei punti di distribuzione fa capo direttamente alle compagnie petrolifere, il 38,7% ai “convenzionati”

Tratto da Altreconomia 167 — Gennaio 2015

L’Italia non è più un Paese per benzinai: è crollata la domanda di mobilità nei giorni feriali -meno 22% dal 2007 al 2013-, diminuiscono i passeggeri di mezzi privati (-16,3% tra il 2008 e il 2013), aumentano le accise statali -fino a rappresentare al primo dicembre 2014 con l’Iva il 61% del prezzo di vendita della benzina-. Scende intanto anche il prezzo del barile (il 16 dicembre 2013 l’importo era di 114 dollari, un anno più tardi ha toccato i 61,51, Brent). Il declino della civiltà dell’auto ha colpito le vendite di carburanti (benzina, gasolio e Gpl) nelle rete tradizionale (-18% tra il 2007 e il 2013) e in autostrada (dove il tracollo ha toccato addirittura quota -46% tra il 2007 e il 2013), ma la reazione dei protagonisti del settore non pare concepire alcuna riconversione, quanto semmai una rivalsa a carico degli oltre 70mila addetti, compresi i gestori dei distributori. Il 30 ottobre 2014 è stato per questi ultimi un punto di svolta. Quel giorno, infatti, il presidente della Repubblica ha promulgato una legge approvata da Camera e Senato intitolata “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea-Legge europea 2013-bis”. Un passaggio obbligato per ogni Paese membro -come abbiamo già descritto nell’approfondimento “Ce lo chiede l’Europa” del gennaio 2014 (Ae 156)-, che in un passaggio apparentemente burocratico contiene un articolo rivoluzionario per i distributori di benzina italiani, e che deriva a cascata dal procedimento comunitario d’infrazione (“Eu Pilot”) 4734/13/MARK. Di fatto, sono stati eliminati “vincoli o limitazioni all’utilizzo continuativo, anche senza assistenza, delle apparecchiature per la modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato”. Tradotto: i soggetti attivi nella filiera della distribuzione di carburante, coloro che sono proprietari degli impianti, potranno installare ovunque pompe interamente automatizzate che non richiedono la presenza del gestore -abbattendo i costi-, e che necessitano al limite del contributo di un tecnico specializzato in caso di guasti.
L’impianto automatizzato non va confuso con il più noto self-service, che è un’integrazione del modello “servito” e non un’opzione esclusiva. L’obiettivo comunitario dichiarato è quello di favorire la concorrenza. Caratteristiche della rete italiana alla mano, però, tutto ciò rischia di tradursi in un concreto beneficio per quelle “società petrolifere verticalmente integrate” che la governano. Sono le 7 protagoniste principali di un mercato costituito a valle complessivamente da 22.400 pompe (al primo gennaio 2013) e che l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato (Agcm) ha riconosciuto esser “caratterizzato da una struttura fortemente oligopolistica”. L’influenza è evidente: il 51,5% dei punti di distribuzione fa capo direttamente alle compagnie petrolifere, il 38,7% ai “convenzionati” -terzi che espongono il marchio di una impresa petrolifera con la quale hanno stipulato un contratto di fornitura esclusiva della durata massima di 5 anni- e il 9,8% da altri operatori -sono le cosiddette “pompe bianche”, sulla carta indipendenti sia per marchio sia per prodotto- e alcuni membri della grande distribuzione organizzata (Gdo). Nella primavera 2014 i distributori dei supermercati erano 113 in tutta Italia, distribuite tra Auchan (29), Carrefour (25), Conad Leclerc (23), Coop (14), Iperstation (9), Simply (9) e altri (4). Nulla se paragonato al ruolo di quelli che l’Unione Petrolifera definisce i “maggiori operatori petroliferi”: nel 2013 Eni, attraverso la divisione “Refining&Marketing”, deteneva il 33% del mercato delle vendite grazie a 4.777 impianti in esercizio. Seguiva Esso, che in Italia opera tramite la Esso Italiana Srl, con una fetta di mercato del 12,9% e 2.667 pompe. Kuwait Petroleum Italia Spa (Q8 per gli automobilisti) ha rilevato nell’estate 2014 tutti i punti vendita di Shell rinforzando i 2.763 punti vendita nonché il “suo” 9,5% di mercato del 2013. E poi TotalErg (3.121), IP Gruppo Api (3.766) e Tamoil (1.737). È in questo contesto che andrà a inserirsi la totale automatizzazione delle pompe, ultima puntata di una lunga serie di iniziative volte -in teoria- a promuovere la razionalizzazione della rete esistente. Il confronto europeo certifica effettivamente un surplus anomalo: sempre al primo gennaio 2013 la Germania annoverava 14.678 pompe, la Francia 11.662, la Spagna 10.424, il Regno Unito 8.714. Ma tutti e quattro i Paesi registravano -secondo i dati forniti dal National Oil Industries Associations– un tasso di “erogato medio complessivo” ben al di sopra di quello italiano. 3.370 metri cubi di benzina e gasolio per la Francia, 3.200 per la Germania, 3.906 per il Regno Unito e 2.397 per la Spagna, contro 1.339 metri cubi del nostro Paese. La rete italiana sarebbe perciò tanto estesa quanto inefficiente. Nomisma Energia -su incarico dell’Unione Petrolifera- ha redatto uno studio che indica come “obiettivo di ottimizzazione della rete” quota 15.385 punti di distribuzione rispetto agli attuali 22.400. Resta da capire a quale costo occupazionale -anche rispetto ai punti di distribuzione ritenuti compatibili e che verranno mantenuti-, ambientale -come ha scritto il Consiglio di Stato in un parere dell’ottobre 2014 “gli impianti di distribuzione dei carburanti sono diffusi in tutte le zone urbanistiche e, dai dati ISPRA del 2013, risulta che costituiscono circa il 20% dei siti potenzialmente contaminati del territorio nazionale”-, e di reale efficienza. Nella sua indagine conoscitiva sul settore dell’inizio 2013, infatti, l’Antitrust aveva rilevato livelli di erogato medio complessivo più elevati nel caso proprio delle “pompe bianche”, o retisti indipendenti, destinate ad essere espulse a seguito di processi di concentrazione o riorganizzazione della rete già oligopolistica. Ed è sulle prospettive che ragiona Alessandro Zavalloni, membro della segreteria nazionale della Fegica (Federazione italiana gestori carburanti e affini) Cisl, convinto che “l’automatizzazione non rappresenti affatto l’elemento modernizzante per la rete”. Perché? “L’elemento concorrenziale in Europa non è mai stato la totale automatizzazione ma semmai la ‘selfizzazione’, e cioè un punto vendita cui sono affiancati servizi diversi. L’automatizzazione invece produrrà una rete ‘asciutta’, consentendo al fornitore di scendere nel prezzo al dettaglio e ottimizzare i costi”. Perché? “Il fornitore è spesso un soggetto integrato verticalmente, che importa, raffina, distribuisce e rivende”. Secondo Zavalloni questa operazione rischia di danneggiare circa 100mila operatori, tra gestori e addetti. E anche se l’obiettivo dichiarato è l’efficienza, nell’interesse del consumatore-cittadino, il sindacalista non è d’accordo: “È impossibile cercare ‘efficienza’ dove non ce n’è più, dato che al gestore del punto di distribuzione spettano, in media, 3,5 centesimi di euro al litro”. I dati sullo scarso ricorso al self dà ragione a Zavalloni: dei 22.400 punti vendita solo il 44% era anche self, contro l’80% dell’Austria, il 100% della Danimarca, il 99% della Germania, il 98% dell’Olanda e il 95% del Regno Unito.

La riconversione è tenuta lontano anche dai sussidi alle fonti fossili. Secondo Legambiente la somma di sussidi diretti, indiretti, esenzioni e sconti nel 2013 sfiora i 18 miliardi di euro. A livello globale, sarebbero invece 550 miliardi di dollari secondo l’ultimo World Energy Outlook dell’Agenzia energetica internazionale (IEA).
Un altro indicatore della scarsa predisposizione alla riconversione del settore è anche l’andamento del mercato dei agrocarburanti, dove i più diffusi sono il biodiesel -derivato da oli vegetali estratti da semi di piante come palma e colza-, e il bioetanolo -prodotto da biomasse ricche di zucchero (come il mais)-. Nel “Pacchetto Clima-Energia” adottato nel 2007 dal Consiglio e dal Parlamento europeo -e rinominato “20-20-20”- era stato tra le altre cose previsto un aumento del 20% della quota di fonti rinnovabili nella copertura dei consumi finali -usi elettrici, termici e per il trasporto-, con specifica attenzione alla sostituzione del 10% per il settore dei trasporti. Un obiettivo rafforzato da due direttive (la 2009/28/CE o “RED” e 2009/30/CE). Chi monitora l’andamento dei consumi nazionali è il Gestore Servizi Energetici, che nel 2013 ha registrato una quota “d’obbligo” di biocarburanti “immessi in consumo” pari al 4,5% del “contenuto energetico di benzina forniti nell’anno precedente”. A carico di chi non dovesse rispettare la “quota d’obbligo” è prevista una sanzione (nel 2012 sono state accertate inadempienze a carico di tre società e comminate sanzioni per 900mila euro). Dal 2015 però le regole del gioco cambiano: è mutato il calcolo della quota d’obbligo -non più determinata sul consumo dell’anno precedente, ma sul carburante immesso nell’anno solare- e si è ampliato il novero delle materie prime utilizzabili (tra cui alcune categorie di grassi animali).

Il ministero dello Sviluppo economico trasmette i dati quantitativi sul biocarburante immesso in consumo soltanto per “deduzione”, evidenziando il peso delle importazioni: su 1,3 milioni di tonnellate di biodiesel (il sottoinsieme maggioritario dei biocarburanti, nell’ordine del 90% circa) immesso in consumo nel Paese nel 2013, 980mila tonnellate provenivano dall’estero. E il Rapporto attività 2013 del GSE dà conto della filiera: le materie più utilizzate per produrre biocarburanti sono “le coltivazioni alimentari (44%), seguite da rifiuti e sottoprodotti (24%) e palma (8%). Per il restante 24% del biocarburante dichiarato -scrive il GSE- la materia prima d’origine non è nota”, ma è un’informazione non obbligatoria. Non è immediatamente ricostruibile nemmeno l’identità dei soggetti che importano biocarburante in Italia da Paesi extra-Ue. Fino a due anni fa l’autorizzazione era prevista per legge (decreto legge 83 del 22 giugno 2012) e gli interessati erano raccolti in un apposito Registro. La liberalizzazione del settore, però, ha comportato l’abrogazione del comma, e quindi la scomparsa dell’elenco, fermo al 15 dicembre 2013 e pubblicato sul sito del Mise. Scorrendolo si nota che su 26 autorizzazioni emesse, 24 facevano riferimento ad una sola società, la Im Biofuel Italy Srl, il cui “impianto produttivo extra Ue” era ubicato in Indonesia. Il socio unico della Srl italiana, che tra luglio e dicembre 2013 ha fatturato 107 milioni di euro, è la multinazionale Im Biofuel Pme Ltd con sede a Singapore. Il presidente del cda della Im Biofuel Italy Srl si chiama Karim Bachtiar, dodicesimo uomo più ricco d’Indonesia, con un patrimonio personale stimato a 2 miliardi di dollari. L’Indonesia è un caso di scuola per chi volesse misurare gli effetti dei biocarburanti “sostenibili”. Le piantagioni da cui è ricavato l’olio di palma occupano 13,5 milioni di ettari. Il Governo punta a raggiungere quota 28 milioni di ettari entro il 2020 -una superficie che equivale alla somma di Lombardia e Valle d’Aosta-. Lo farà deforestando. —
 

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