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Diritti / Opinioni

Vent’anni di detenzione amministrativa dei migranti: c’è poco da festeggiare

Nel 1998 comparve il “trattenimento” degli stranieri. Le strutture sono ancora oggi gironi infernali. La rubrica di Gianfranco Schiavone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione

Tratto da Altreconomia 224 — Marzo 2020
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Era il 1998 quando in Italia comparve l’istituto giuridico del “trattenimento” del cittadino straniero per poterne eseguire l’espulsione che non era stato possibile attuare immediatamente per una pluralità di cause, prima tra tutte la mancata identificazione della persona. Nascevano i luoghi di “detenzione amministrativa” denominati prima Cpta (Centri di permanenza temporanea ed assistenza) poi Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e infine Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). È cambiata la denominazione ma non la sostanza della nozione di “detenzione amministrativa” così definita perché non disposta a seguito di una condanna per un reato penale e attuata senza le garanzie previste dall’ordinamento penitenziario. Dai tempi massimi di trattenimento, all’inizio 30 giorni, nel 2011 si pervenne all’abnorme previsione di 18 mesi, termine che nel 2014 si contrasse a tre mesi per di nuovo dilatarsi a sei mesi nel 2017 trasformando il trattenimento in una vera e propria misura afflittiva extra penale più che in un “incidente di esecuzione” della misura espulsiva.

4.092 sono i migranti trattenuti nei Centri di permanenza per i rimpatri nel 2018 in tutta Italia: il 43,2% è stato rimpatriato

Con la gestione dei fenomeni migratori che hanno cambiato il nostro Paese, il trattenimento dei migranti non ha però pressoché nulla a che fare dal momento che il numero delle persone trattenute è sempre stato, nel ventennio, di poche migliaia di casi all’anno e il tasso di efficacia della esecuzione dell’espulsione ha oscillato tra il 20% e il 50% circa (nel 2018 i migranti trattenuti sono stati in tutta Italia 4.092 e solo 1.768, ovvero il 43,2%, sono stati rimpatriati). Sono numeri irrisori che ci portano alla domanda di fondo: “Chi è il migrante che deve essere trattenuto?”.
Qualsiasi persona ragionevole risponderebbe che una misura così estrema sarà sicuramente riservata alle situazioni nelle quali è chiara la pericolosità sociale della persona coinvolta. Non è così: la normativa italiana sulle espulsioni amministrative è sempre stata priva dei minimi requisiti giuridici di proporzionalità e ragionevolezza perché l’espulsione e il conseguente trattenimento per eseguire la misura è disposto in modo cieco tutte le volte che, per qualsiasi ragione, lo straniero non abbia mai avuto o abbia perso la regolarità di soggiorno, qualunque sia stato il percorso fatto dalla persona in Italia, la sua integrazione sociale, l’assenza di reati significativi, la possibilità di recuperare/conseguire un percorso di normalità. Ciò trasforma le strutture di trattenimento in autentici gironi infernali nei quali forzatamente convivono persone dal rilevante profilo criminale insieme a persone socialmente fragili ma innocue, rifugiati, vittime di tratta, migranti inseriti nella società che, per varie avversità, hanno perso il lavoro e poi la regolarità di soggiorno, e persino persone nate e vissute in Italia e mai regolarizzate che, alla maggiore età, venivano espulse verso il “paese di origine”.

La presenza, nei centri, di persone con alle spalle periodi di carcerazione più o meno lunghi (mediamente attorno al 60% dei trattenuti) evidenzia ancora di più l’irrazionalità del sistema perché si tratta di un trattenimento per effettuare una “identificazione” mai avviata o conclusa negli anni precedenti di carcerazione e che, se effettuata a tempo debito, avrebbe potuto portare a un rimpatrio a fine pena (ove giustificato) senza bisogno di ulteriore detenzione appunto “amministrativa”. I centri sono pieni di persone che, per i motivi più diversi e persino opposti, non avrebbero mai dovuto entrarci. Dopo vent’anni di detenzione amministrativa siamo ancora all’anno zero nella elaborazione e nella consapevolezza sociale e politica su ciò che è stato e sulle alternative che dobbiamo costruire.

Gianfranco Schiavone è studioso di migrazioni nonché vice-presidente dell’Asgi e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus di Trieste

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