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Cultura e scienza / Intervista

Matilde Castagna, Witness Journal. La fotografia prende posizione

#LiberiTutti è il titolo di una mostra organizzata da Witness Journal

“Dovremmo imparare a prestare maggiore attenzione a quello che guardiamo. Ogni giorno veniamo bombardati da milioni di immagini ed è importante fare un piccolo sforzo per educarsi alla lettura delle immagini per fare in modo che la fotografia diventi uno…

Tratto da Altreconomia 200 — Gennaio 2018

“Dovremmo imparare a prestare maggiore attenzione a quello che guardiamo. Ogni giorno veniamo bombardati da milioni di immagini ed è importante fare un piccolo sforzo per educarsi alla lettura delle immagini per fare in modo che la fotografia diventi uno strumento di riflessione, di pensiero e di confronto”.

Matilde Castagna è fotografa freelance e vicepresidente di “Witness Journal”, un’associazione che raccoglie il testimone dall’omonimo progetto lanciato nel 2007 dal fotografo e giornalista Amedeo Novelli. “Witness Journal è stata la prima rivista online dedicata al fotogiornalismo, un’idea rivoluzionaria per l’epoca”, spiega Matilde Castagna. Qualche anno dopo -anche a causa del cambiamento del mercato- il progetto di WJ affronta una nuova sfida. A raccoglierla, un gruppo di amici, fotografi e non, che nel 2016 hanno dato vita a un’associazione di promozione sociale con obiettivi ben precisi: fare cultura fotografica, educare ai linguaggi visuali, promozione della fotografia come strumento di integrazione e socializzazione.

Qual è l’obiettivo del lavoro di “Witness Journal”?
MC Nel mondo dell’informazione fotografica oggi c’è un gran caos. In questo mare magnum è difficile orientarsi, capire se e come un’immagine possa essere spunto di riflessione. O capire come leggere un’immagine. È per questo che il nostro obiettivo non è formare fotografi professionisti, ma rivolgersi agli appassionati di fotografia, alle persone comuni.

Quali sono i canali che avete scelto per far passare il vostro messaggio?
MC C’è la rivista, innanzitutto, in cui pubblichiamo sette reportage più un approfondimento per numero. Dal 2007 al settembre 2017 abbiamo pubblicato 92 numeri per un totale di 828 reportage. La scelta di diventare un’associazione nasce dalla volontà di andare oltre la rivista, attraverso progetti e corsi di formazione, incontri, dibattiti e il festival “Closer, dentro il reportage”, un evento dedicato alla fotografia sociale e documentaria, che organizziamo a Bologna assieme a “QR photogallery” in programma dal 2 al 4 febbraio 2018.

Che cosa è per voi la fotografia etica?
MC Sono un po’ restia a parlare di fotografia etica. Si può usare l’etica in fotografia. Quando scegliamo un reportage da pubblicare, ad esempio, noi scartiamo tutte quelle immagini che mostrano violenza esplicita o il sensazionalismo fine a se stesso.

Perché escludete questo tipo di immagini?
MC Siamo convinti che serva un modo meno urlato e violento di fare fotografia. È necessario un cambiamento, che riguarda sia il modo con cui un fotografo lavora, sia la scelta del soggetto da rappresentare. Spesso i fotografi si sentono dire che i temi più quotidiani “non interessano” il largo pubblico, noi siamo convinti del contrario.

Sfogliando le pagine di molte altre riviste si notano immagini in cui l’uso delle luci e dei colori accentuano l’aspetto drammatico. Anche quando non ce ne sarebbe bisogno.
MC Quello della verità dell’immagine è un tema da sempre centrale nel dibattito sulla fotografia. E non riguarda solo quella che -con termine tecnico- viene definita post-produzione. C’è una tendenza ad accentuare i contrasti. Come avveniva nell’arte barocca, che movimenta ed esaspera le forme del Rinascimento per suscitare un’emozione negli spettatori, per commuoverli. Per me la cosa più importante è l’onestà nel rapporto con il pubblico: quando scatto devo fare in modo che chi osserverà l’immagine capisca correttamente quello che sta succedendo. Se devo realizzare un servizio su una manifestazione pacifica e faccio uno scatto che drammatizza quella situazione non sono stato onesto.

Quanto è rilevante il ruolo del fotografo ?
MC Tantissimo. Innanzitutto perché un servizio fotogiornalistico non è un insieme di scatti ma un percorso, spesso molto lungo, che ha come obiettivo quello di avvicinare il più possibile il lettore alla realtà. Inoltre è importante sottolineare che la fotografia non restituisce mai la verità con la V maiuscola. Ma restituisce la verità di chi l’ha scattata, ha deciso l’inquadratura e cosa metterci dentro. Come dice Uliano Lucas (fotoreporter milanese da sempre attento ai temi sociali, ndr) con la fotografia si prende posizione.

Una buona fotografia può ancora provocare cambiamenti nelle coscienze, nella società o nella politica?
MC Penso di sì. Specialmente per chi è convinto che possa esistere un cambiamento delle coscienze che parte dal confronto e dalla crescita comune. La fotografia può essere uno strumento di comunicazione e di incontro potente a diversi livelli. Oggi un buon reportage, forse ancor più di una singola immagine, ha la possibilità di farci interrogare su alcune realtà che altrimenti sono invisibili ai nostri occhi. Può farci pensare, ma può farci anche avvicinare più attivamente al mondo di cui facciamo parte e che spesso non ci accorgiamo di poter costruire.

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