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“Caro presidente, provo a spiegare la mia delusione per il suo discorso di fine anno”

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del discorso di fine anno © Quirinale

Sono “tante e dolorose” le mancanze nel discorso del presidente Sergio Mattarella, scrive il professor Pileri. “A partire dalla bassa sensibilità ecologica che oggi invece avremmo la necessità che diventi la lente per guardare lo stato delle cose. Perché pensare di proseguire sul filo insidioso del compromesso è davvero problematico”

Non nascondo la mia delusione per il discorso presidenziale di fine anno, pur condividendo alcuni passaggi. Una delusione che poggia su due punti che mi permetto di spiegare usando, mi sia concesso, il registro della franchezza senza con ciò venir meno al rispetto per l’istituzione, che riconosco pienamente.

Il primo ha a che fare con l’estrema debolezza del pensiero ecologico. La natura è solo accennata nel discorso e laddove lo è, rimane subalterna ai bisogni dell’uomo, funzionale al realizzarsi del sapiens e delle sue aziende. Sappiamo invece che la vera sfida, culturale e sociale, sta nel rispettare la natura in quanto natura quindi ben prima di ciò che possiamo ricavarci. Purtroppo nel discorso ha trovato molto più spazio il tema della “crescita economica” qualunque e comunque sia concretizzata. Il sistema economico è citato ma non criticato. La lode alle imprese senza un monito alla sostenibilità è, a mio modo di vedere, fuori dal tempo e quindi rischiosa perché non aiuta a far fare quel salto che stentiamo ancora a spiccare e che ci condanna alla insostenibilità in Europa e non solo in Europa.

Eccezionale sarebbe stato dire agli italiani se e quanta parte di quella ripresa imprenditoriale è stata a impatto zero o almeno a minor impatto. Abbiamo bisogno di dire alle istituzioni pubbliche del Paese di farsi promotrici serrate di una conversione ecologica del sistema imprenditoriale. Ma di questo non ho trovato tracce.

In un altro passaggio del discorso leggo che la Repubblica è nelle mani di chi “paga le imposte”: vero. Ma è altrettanto vero che è anche e soprattutto nelle mani di chi quelle imposte decide di spenderle. E oggi spendere -bene- non solo non è scontato ma significa passare dalla cruna dell’ago ambientale-ecologico, non dimentichiamolo. Il contratto fiscale è frutto di un bilanciamento tra il cittadino che dà e il soggetto pubblico ricevente chi reinveste. Ovvio che se il cittadino e le imprese evadono ovvero non danno o danno meno, succedono guai. Ma non solo così. Se spendiamo male e in modo insostenibile il frutto delle imposte, non solo facciamo danni e sprechiamo risorse di tutti, ma rompiamo il sottile filo di fiducia tra cittadino e Stato. E i responsabili della decisione di spesa non sono i cittadini, ma i politici in prima battuta e le amministrazioni pubbliche in seconda. Però nel discorso presidenziale i primi non sono citati come responsabili di nulla quando, invece, lo sono enormemente avendo, proprio e solo loro, tra le mani un potere che i cittadini certo non hanno e ai quali non possiamo imputare colpe.

Un generico appello che richiama lo Stato alle sue responsabilità è sufficiente? Sollecitare tutti a fare la loro parte è sufficiente? Non abbiamo forse bisogno di un appello a responsabilizzare la politica che ha precise ed esclusive responsabilità nel cambiamento? L’avrei trovato necessario e urgente. Non illudiamo e non illudiamoci, molte spese pubbliche, anche di quelle tinte di verde e preventivate nel Pnrr così lodato dal presidente, sono frutto di un mix tra miopia, incapacità di spesa pubblica e frammentazione amministrativa di cui non possiamo dire che la classe politica non abbia responsabilità. Quella stessa classe che ha rinunciato a coltivare una visione di futuro, che ha perso il mordente per generare cambiamento e che si è ritagliata un ruolo di mera gestione giorno dopo giorno, cosa che non basta affatto per disegnare un futuro diverso.

Molta della spesa prevista nel Pnrr genererà guai ecologici e ambientali che le cariche politiche non vedono o ignorano, anche e forse proprio per mancanza di interpretazione ecologica delle cose della realtà. Non si rendono conto delle conseguenze ecologiche delle loro decisioni. Davanti alle sfide ecologiche gigantesche che abbiamo, andrebbe ricordato che la responsabilità dei politici è cruciale e non basta il voto per essere “imparati” ma occorre studio, preparazione, lettura, sguardo critico e indipendente. Cose assai carenti in Italia dove la formazione alla politica non esiste più da tempo. Non ci si prepara più, ma si pretende di governare bene lo stesso. Come poter affrontare allora le sfide ambientali ed ecologiche che richiedono una sensibilità che va preventivamente coltivata e formata?

La transizione ecologica non viene da sé. Non basta chiamarla. Non ci viene il dubbio che quel coraggio per le sfide future, pur citato nel discorso, fatichi ad arrivare da un corpo politico rappresentato dalle medesime persone che poco prima calpestavano la natura con ogni mezzo? Che avevano una idea funzionalista della natura, che ritenevano un diritto per il sistema economico estrarre risorse, che non hanno mai avuto dubbi sugli eccessi del modello di consumo, che si sono fatti in quattro per proteggere i propri affari e quelli dei grandi elettori (grandi imprese e gruppi di potere). Questi dubbi non ci sfiorano? Eppure il governo in carica non ha perso tempo nel dire di avere in mente solo una natura dove l’uomo può continuare a stare dentro a fare quel che vuole fare. Affermazioni del genere, gravi e poco contrastate dalle opposizioni (che forse son d’accordo o non ne hanno colto la gravità), sono possibili proprio per una carenza strutturale del pensiero ecologico nel corpo politico e, a cascata, in quello sociale. Quindi, o si interviene o diversamente prevarrà ancora una idea estrattiva dove la questione ambientale sarà ridotta a mettere qualche pezza laddove i buchi sono più grandi (dicesi greenwashing).

Spiace quindi, ma non mi sorprende, non sentire un appello a generare una vera transizione ecologica, e sentire solo fermento per la transizione energetica. Ma anche qui dimenticando il risparmio energetico (fondamentale) e il fatto che la nostra domanda di energia è in buona parte correlata a un modello sociale di consumo profondamente eccessivo e sbagliato che va ridotto, rimosso, ripensato. Bisogna lavorare sulle cause più che sui sintomi. È qui che abbiamo bisogno di autorevoli parole che sconcertano l’ordinario fluire delle cose. Andare a scuola in auto elettrica al posto di auto a benzina quando ci si potrebbe andare a piedi o in bici rimane una pessima transizione energetica. Anzi non lo è affatto. Dobbiamo ripensare il nostro modo di muoverci e per farlo non basta aggiungere la mobilità elettrica, ma va ridotta la mobilità privata motorizzata (a combustione o elettrica che sia). E infine spiace non vedere neppur un cenno a quella che è la iattura decennale di questo paese: il cemento. Non una parola sul consumo di suolo che è tra i massimi responsabili del degrado sociale e paesaggistico del nostro Paese e della nostra incapacità a rispettare gli accordi internazionali, tra i quali ad esempio la Agenda 2030 o il traguardo a incrementare la biodiversità. Il consumo di suolo continua a flagellare il Paese: si è impennato durante la stagione Covid-19; genera una enormità di danni ecologici e ambientali; innalza la spesa pubblica; riduce la nostra produttività agricola (non una parola sull’agricoltura, ahinoi); aumenta la fragilità intrinseca del Paese e spesso è alla base dei problemi idrogeologici (nessun cenno a questi). La cementificazione continua a non entrare nei discorsi politici.

Il secondo motivo di personale delusione è nell’appello finale rivolto ai giovani. L’ho trovato un po’ troppo paternalistico, se mi è concesso. Possiamo davvero ancora permetterci di trattare alcuni problemi strutturali del nostro Paese chiedendo alle vittime di fare in modo di essere meno numerose? Se con una mano vogliamo fare questo (e lo condivido), penso che dobbiamo tirar fuori anche l’altra per domandarci umilmente se facciamo tutto quel che possiamo fare per evitare quegli incidenti mortali. È importante, socialmente parlando, riconoscere i nostri errori di adulti che, decidendo le regole della vita pubblica e privata, peggiorano il loro stato di vittime.

È corretto dire ai ragazzi di non bere prima di guidare (giusto anche dire di non bere e drogarsi in generale) ma è altrettanto, se non di più forse, dire a noi adulti di investire di più e meglio per ridurre quelle sciagure. O no? Altrimenti, rischiamo di nuovo di assolvere chi dovrebbe lavorare ad evitare o prevenire quelle sciagure, spostando la responsabilità unicamente su chi le subisce. Mi spiego meglio con un esempio. Per anni e anni abbiamo disinvestito sul trasporto pubblico costringendo di fatto i cittadini a usare sempre più l’auto, soprattutto quanti vivono fuori dalle città, nelle aree marginali e interne del Paese. Non sorprende che siamo il paese europeo con più auto per abitante (0,67 auto/abitante). Non riconoscerlo è un problema che non aiuta a rimuovere parte delle cause che fan sì che l’incidentalità rimanga alta nella nostra penisola. Continuiamo a inondare i social e la TV di promozioni commerciali per usare l’auto. Lasciamo che in auto si possa arrivare nel cuore di molte città storiche. Si lascia intendere che con l’auto si possa fare tutto, mentre a piedi, in bici e con i mezzi pubblici molto meno. Per fare e manutenere le strade spendiamo enormi quantità di denaro pubblico, per i mezzi pubblici pochissimo. I treni regionali sono brutti, sporchi, freddi, non frequenti e spesso pure soppressi. I nostri studenti universitari che sono nelle sedi distaccate non possono usare i treni perché là non ci arrivano. I nostri studenti che potrebbero venire a Torino, Verona, Cesena, Foggia, etc. a studiare pur abitando a qualche decina di chilometri sono costretti a trasferirsi o ad usare l’auto perché nel frattempo si continuano a togliere corse di treni e bus.

Se abiti in una Regione che non ha soldi o dove i politici sono miopi (e non manca la combinazione) i treni regionali neppure circolano nei festivi e allora i giovani usano l’auto. Le metropolitane nelle città non funzionano la notte e i bus pure o sono saltuari dopo la mezzanotte quando i nostri giovani li hanno bisogno. Le linee di bus extraurbani vengono tagliate e intere zone italiane sono isolate. Il biglietto di bus e metro è sempre più caro. Stando così le cose, secondo voi i giovani prenderanno sempre più bus e treni? Visto che giustamente il presidente ha ricordato la Costituzione e l’impegno dello Stato a rimuovere gli ostacoli che degradano il pieno sviluppo umano, credo corretto quanto meno ricordare la responsabilità della classe politica e delle istituzioni pubbliche nel fare meglio e più coraggiosamente la loro parte: anche loro hanno responsabilità per quelle vittime (analoga cosa va detta per i morti sul lavoro, altro tema sorprendentemente assente). Quindi liquidare un tema così delicato e doloroso come la perdita di giovani vite umane sulle strade appellandosi solo alla loro responsabilità, l’ho trovato quanto meno incompleto e sbilanciato. Senza tirare in campo la responsabilità politica si finisce, di nuovo, per deresponsabilizzare la politica stessa e frustrare le istituzioni pubbliche che provano a fare qualcosa.

In definitiva, e mi spiace dirlo, sono tante le assenze dolorose in quel discorso a partire dalla troppo bassa sensibilità ecologica che oggi abbiamo necessità diventi la lente attraverso guardare il reale stato delle cose, i percorsi da intraprendere e quelli da abbandonare. Senza questa “deviazione di rotta” vedo difficile trovare lo slancio per il cambiamento che abbiamo bisogno, quello coraggioso che implica una innegabile discontinuità culturale e una presa di distanza da quella cornice consumistica dentro la quale continuiamo a stare e continuano a intrappolarci. Pensare di proseguire sul filo insidioso del compromesso è davvero problematico. Citare, en passant, l’affermazione di una nuova cultura ecologista senza dargli gambe e senza rivolgersi, senza mezzi termini, alla classe politica affinché rifletta su se stessa e capisca come depositare concretamente a terra le istanze non rimandabili di quella cultura, non basta. Mi scuso con il presidente per la mia franchezza che lui, nel suo ruolo di presidente di tutte e tutti, saprà accogliere e superare. Dopotutto anche tutelare la libertà e la franchezza delle opinioni è tutelare la democrazia.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)

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