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Opinioni

Carl che ha fatto solo il suo mestiere

Carl ha fatto la guerra. Carl crede nella pace, si batte contro il riarmo e svela le ipocrisie del suo governo. Poteva fuggire lontano ma non l’ha fatto. Per questo è prigioniero del suo governo, a 500 chilometri da casa. Carl è un giornalista, ha ricevuto uno tra i più importanti riconoscimenti al mondo. Ma non potrà mai ritirarlo

Tratto da Altreconomia 176 — Novembre 2015

In piedi sulla porta della baracca, Carl osserva gli alberi attraverso il recinto che delimita il campo. Filo spinato.
Piccolo, naso tagliente, la fronte ampia. Tossisce.
Osserva la sua spalla sinistra indolenzita: 562. È il mio numero. Sono io.
Pensa a sua figlia. La rivedrà, ma non per osservarla crescere, lavorare, farsi una famiglia. Non sono stato un buon padre. Carl invece di suo padre non ha nemmeno ricordi: è morto quando aveva due anni. Pensa a sua madre che l’ha cresciuto da sola. Sua madre voleva che diventasse monaco. E invece ho scelto di fare il giornalista, pensa Carl.
Ha scritto il suo primo articolo che ancora non aveva compiuto 24 anni. Era un pezzo contro le politiche aggressive e militari del governo. Alla fine mi ci hanno pure mandato, in guerra, ricorda Carl. Aveva 27 anni: direttamente al fronte.
Tossisce ancora. È stanco per i lavori forzati. E i maltrattamenti. È qui dentro da due anni. Ha 46 anni ma se ne sente addosso cento.
Adesso ci si è messo pure Einstein, con questa storia del premio per la pace. Ma io ho solo fatto il mio mestiere. La guerra fa schifo, il riarmo è solo l’inizio. Hanno detto che sono un traditore. “Alto tradimento”, addirittura. Ho solo fatto il mio mestiere. E non ho mai smesso di farlo.
Sono passati otto anni da quando è diventato direttore dello “Scenario Mondiale”. Neanche due anni dopo il suo miglior cronista tira fuori la storia delle truppe addestrate segretamente nientemeno che dal nemico. Prima di cominciare a sparare siamo tutti amici, pensa Carl. Gran bell’articolo, ma li abbiamo fatti arrabbiare davvero. “Spionaggio”, addirittura. D’altra parte avevano violato il trattato di pace. Non potevamo tacere. Walter ha fatto bene a scappare. Ma io non potevo. Alla fine in carcere non è stata così dura. Non è come qui.
Ripensa a quando era segretario della “Società per la pace”. Non lo avrebbero tollerato a lungo.
Rivede il fuoco che nella notte incendia il Parlamento. Ricorda di aver pensato: adesso arrivano da me. E infatti, la mattina dopo il rogo, lo vengono a prendere a casa. Nelle orecchie ha ancora il silenzio sgomento della figlia.
Sono due anni che mi hanno messo qui.
La storia del premio è un’idea di Jacob, lo so. Non pensavo saremmo arrivati fino in fondo. Anche Thomas Mann ci s’è messo.
Non mi permetteranno mai di andare a ritirarlo. Ma non ho intenzione di ritrattare. Il premio è un simbolo troppo prezioso. Li farò infuriare, ma non mi importa. A quei giornalisti che sono venuti a trovarmi l’ho detto: io faccio parte di quel gruppo di europei che considera il riarmo una follia. Io credo nella pace. Magari un giorno, magari fra ottanta anni, non ci sarà bisogno di un premio per la pace. E la guerra sarà un ricordo.
Carl guarda ancora gli alberi. Fa freddo, casa sua è a 500 chilometri. Sente l’odore del mare, o forse solo se lo immagina. Tossisce. Rientra nella baracca.


Carl von Ossietzky nacque nel 1889 ad Amburgo. Per un articolo pubblicato nel 1929 sul giornale di cui era direttore, Die Weltbühne, nel quale si chiariva come la Germania stesse violando il Trattato di Versailles, fu rinchiuso nel carcere di Spandau, a Berlino, nel 1931. Rilasciato sette mesi dopo, continuò a scrivere contro la corsa agli armamenti e contro il partito nazista e a capeggiare il movimento pacifista tedesco. Continuò anche dopo l’ascesa al potere di Hitler. All’indomani dell’incendio del Reichstag -nel febbraio 1933- fu arrestato e -dopo un breve soggiorno ancora a Spandau- rinchiuso nel campo di concentramento di Esterwegen, vicino all’odierno confine coi Paesi Bassi.
La sua candidatura al Premio Nobel per la pace del 1935 fu sostenuta da una larga parte dell’opinione pubblica mondiale e da illustri tedeschi. Per non irritare il governo tedesco, il comitato del Nobel quell’anno non assegnò a nessuno il premio per la pace, salvo ripensarci nel 1936 riconoscendolo a Ossietzky con valore retroattivo. Infuriato, Hitler vietò che la stampa ne parlasse e vietò a chiunque di accettare d’ora in poi altri premi Nobel.
Il giornalista non fu mai autorizzato a ritirare il premio. Malato, uscì dal campo di concentramento nel 1936 per morire di tubercolosi nel 1938, in ospedale, sotto la stretta sorveglianza della Gestapo. —

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