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Carcere, nessuna rivoluzione. Il Pnrr va nella direzione sbagliata

I 132,9 milioni di euro previsti dal Piano nazionale di ripresa per il sistema carcerario si concentrano sull’ammodernamento e la costruzione delle strutture. Una ricetta vecchia e superata. Servono interventi organici per riavvicinare la pena al suo contenuto rieducativo

© Associazione Antigone, via Facebook: @antigoneonlus

Gli investimenti previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sul tema del carcere vanno verso la direzione sbagliata: i fondi europei destinati al sistema penitenziario sono in totale 132,9 milioni di euro, utilizzabili dal 2022 al 2026 per la “costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture”. Nel luglio 2020 le immagini delle violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere avevano mostrato la brutalità di un sistema al collasso. “Dopo aver toccato il fondo in estate, anche a detta di chi nei penitenziari ci lavora, servivano risposte radicali e rivoluzionarie -spiega Michele Miravalle, ricercatore all’Università di Torino e membro del direttivo di Antigone-. Se con i fondi del Pnrr tutto quello che si riuscirà a fare sarà un ammodernamento delle strutture, allora il Paese avrà perso un’occasione”.

Il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia ha definito linee programmatiche che fanno intuire una nuova visione del carcere come misura residuale per l’esecuzione della pena. È stata prevista all’interno della riforma del processo penale -approvata il 23 settembre 2021- la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione anche prima che la sentenza diventi definitiva; mentre sul fronte della vita detentiva, l’istituzione di una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario presso il ministero dimostra attenzione verso il tema. Ma gli investimenti del Piano di resilienza seguono una via diversa. “La mia impressione è quella della mancanza di una visione organica: non condivido la strada dell’investimento sulla costruzione di nuove carceri che invece dovrebbero essere ripensate diversamente sia nella ristrutturazione, laddove fatiscenti, che nella gestione. Ma anche a proposito dell’investimento unico sulle misure alternative ‘anticipate’ ho delle perplessità” spiega Marcello Bortolato, magistrato e presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze.

In risposta a un’interrogazione presentata a fine ottobre 2021 dai deputati del Partito democratico Walter Verini e Alfredo Bazoli, Cartabia ha chiarito che è necessario un ampliamento del personale per l’attuazione delle misure alternative. A fronte di circa 69mila misure in corso, l’organico prevede che il comparto delle funzioni centrali sia dotato di quasi 3.500 unità di cui solamente 1.700 operatori del servizio sociale.

Ma l’errore di fondo secondo Bortolato è legato al mancato investimento sulla magistratura di sorveglianza che ha il compito di rendere esecutiva la pena. “Come magistrati, noi non ci occupiamo solo dei detenuti ma anche dei cosiddetti ‘liberi sospesi’ che sono l’80% delle condanne in Italia -spiega-. Parliamo di persone condannate definitivamente con una pena residua inferiore ai quattro anni che non vanno subito in carcere. Una volta che la sentenza è definitiva, il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena e l’interessato ha trenta giorni di tempo per fare domanda al tribunale di sorveglianza per l’applicazione di una misura alternativa”.

Le carenze strutturali del processo di esecuzione che vede in pianta stabile poco più di 200 magistrati a fronte degli oltre 5mila nel processo di cognizione, fanno sì che la decisione del tribunale arrivi dopo anni dalla sentenza definitiva. “Un paradosso. Il tribunale deciderà quattro, cinque, dieci anni dopo la fine del procedimento. Un fatto grave perché poi si rischia che quando la pena andrà eseguita quella persona è molto cambiata: ha un lavoro, una famiglia, si è costruita una nuova vita e magari si ritrova a fare i conti con una detenzione domiciliare che rimischia le carte”.

Marta Cartabia è ministra della Giustizia, professoressa ordinaria di Diritto costituzionale e presidente emerita della Corte costituzionale

Secondo il magistrato uno dei grandi limiti della riforma del processo penale sta nell’assenza di un investimento specifico sulla fase dell’esecuzione della pena. “Siamo esclusi dagli investimenti del Pnrr destinati agli uffici giudiziari perché i fondi erano vincolati al processo civile e penale. Nella maggior parte degli altri Paesi europei non esiste un processo di esecuzione; da noi sì e per questo motivo non sono stati destinati dei fondi agli uffici di sorveglianza. Ma è un errore. Siamo al collasso e non reggeremo il colpo: se il processo di cognizione sarà più rapido ed efficiente grazie alla riforma, arriveranno molte più condanne e questo amplificherà le nostre difficoltà”.

In altri termini, con i processi che diventeranno più veloci si creerà un imbuto: ci saranno più persone a cui applicare la pena ma lo stesso numero di giudici che decidono. Un problema anche con riferimento all’auspicata inversione di tendenza sulla maggior applicazione delle misure alternative per ridurre il sovraffollamento carcerario. Non solo. Anche sotto il profilo della possibilità di applicazione di tali misure ci sono alcune problematiche.

Al 31 ottobre 2021 i detenuti presenti nelle carceri italiane erano 54.307 mentre le persone in misura alternativa alla detenzione erano 30.585. “Abbiamo circa 7mila persone che hanno da scontare pene entro un anno, 7mila entro i due e altre 5mila con pena residua sino a tre anni. Venti detenuti definitivi su un totale di 37mila in esecuzione penale. Persone che potrebbero ottenere delle misure alternative al carcere, detenzione domiciliare, semilibertà, affidamento in prova ma che non possono uscire -spiega Luigi Pagano, ex direttore del carcere di San Vittore a Milano e già provveditore per l’amministrazione penitenziaria della Lombardia-. Non perché siano state dichiarate così pericolose da giustificare il protrarsi dello stato detentivo, bensì perché, per la maggior parte, non hanno riferimenti sociali, un lavoro, una famiglia. Lo stato di bisogno, non altro, sembra essere il discrimine perché si rimanga o meno in carcere”.

Un problema strutturale legato all’intervento “sociale” dello Stato. “In questo caso il problema non è neanche l’articolo 27 della Costituzione, sulla rieducazione del condannato, quanto più l’articolo tre che stabilisce che sia compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Chi non può accedere alla misura alternativa oltre che rimanere in carcere ne determina e subisce il sovraffollamento: quella condizione ancora presente che fa scadere la qualità di vita detentiva e che, con la sentenza Torreggiani, comportò nel 2013 la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per trattamento disumano e degradante” sottolinea Pagano.

Condizioni disumane che nascono da problemi strutturali: non solo quelli architettonici dovuti a strutture detentive pensate e costruite tra gli anni Ottanta e Novanta ma soprattutto quelli legati alla gestione dell’ambiente carcerario. “È servita una pandemia per ricordarsi del sovraffollamento, dopo i 14 morti di Modena bisognava mettere un punto e ricominciare. Invece non si è fatto nulla e poi sono uscite le immagini di Santa Maria Capua Vetere che ci hanno dimostrato che la situazione è al collasso e che le tensioni dopo un po’ esplodono -spiega l’ex direttore di San Vittore-. È facile scaricare tutte le colpe sulla polizia penitenziaria ma la verità è che dopo la Torregiani non si è riusciti a continuare nella diminuzione dei detenuti”. Proprio a seguito della condanna dell’Italia, alla fine del 2014 la popolazione carceraria era diminuita di più di 10mila unità. “Invece di puntellare quello che era stato fatto e andare avanti per permettersi nel frattempo di sognare un carcere diverso, tutto è tornato come prima. Questo è un problema politico e amministrativo: dal 1983 ad oggi sono cambiati 14 capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Come è possibile amministrare se non si ha neanche il tempo di capire come funziona il sistema?”. La conseguenza è l’esplosione delle tensioni: “Chi gestisce il sovraffollamento poi è l’agente in sezione. Non voglio giustificare, sia chiaro. Ma è evidente che quella figura è chiamata ad affrontare una situazione che non nasce da sue responsabilità”.

Oltre all’intervento sul numero degli ingressi e sulla possibilità di accesso a misure alternative alla detenzione, la situazione emergenziale all’interno delle strutture carcerarie ha portato l’associazione Antigone -che monitora il rispetto dei diritti dei detenuti nelle carceri italiane- a formulare una proposta di modifica del regolamento penitenziario. Le “regole” che disciplinano la vita quotidiana dei detenuti sono le stesse dal 20 settembre 2000. “Di certo non ci illudiamo che questo da solo possa cambiare il sistema. Resta però uno strumento importante che può incidere su alcune criticità presenti nel sistema -spiega Miravalle-. Volevamo dare un segnale di concretezza: ai proclami devono seguire i fatti. Dall’estate purtroppo se ne sono visti molto pochi”. La proposta contiene interventi trasversali: dal diritto alla salute, al diritto ai contatti con i propri affetti, ai diritti lavorativi, educativi, religiosi.

Secondo Miravalle sono necessari interventi immediati su due profili in particolare: l’attenzione verso la salute mentale e l’utilizzo della tecnologia nelle carceri. “Non c’è visita di Antigone in cui non ci dicono che ci sono problematiche con i detenuti psichiatrici: le articolazioni per la salute mentale sono luoghi orrendi e di sistematica violazione dei diritti umani. Quegli spazi devono essere meglio definiti in un quadro nazionale. Oggi troviamo situazioni troppo diverse da regione a regione”. Sull’utilizzo della tecnologia all’interno delle strutture è necessario “sfruttare le innovazioni portate dalla pandemia: l’utilizzo delle videochiamate è fondamentale, così come la maggior possibilità di avere colloqui con i famigliari” conclude il ricercatore. Un ritocco della normativa che non rimandi all’infinito, però, gli interventi necessari e urgenti: “Vorrei che non si parlasse solo di futuro. C’è un oggi, un presente che va affrontato -conclude Pagano-. Se parliamo di disumanità del carcere e ogni giorno che passa non interveniamo allora ha poco senso. Le illegittimità vanno eliminate: se non riesci a garantire un posto letto per ogni detenuto bisogna partire da lì. E certamente non basta costruire nuovi padiglioni”.

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