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Ambiente / Opinioni

Carbone, gas, petrolio: la campanella d’allarme è suonata

Gli speculatori già lo sanno: nei prossimi anni le corporation che trattano fonti fossili non costituiranno un buon investimento

Tratto da Altreconomia 185 — Settembre 2016

Uno dei segnali che ci possono far sperare che le donne e gli uomini di questo Pianeta riescano ad affrontare la crisi climatica, è quanto successo nell’ultimo anno nel mondo della finanza. Anche chi ha come obiettivo la massimizzazione dei profitti nel breve termine si è infatti reso conto che la faccenda del cambiamento climatico è diventata importante, e pericolosa. Il pericolo non è quello delle ondate di calore, delle precipitazioni “estreme” che distruggono i raccolti dei contadini, o dell’acidificazione dei mari. È, piuttosto, quello del valore delle azioni delle compagnie del carbone, del petrolio e del gas.

Il motivo è semplice: se si decide di attuare una politica per contrastare i cambiamenti climatici, tre quarti delle riserve conosciute di combustibili fossili devono rimanere sottoterra. Uno studio pubblicato nel 2015 sulla rivista Nature ha indicato anche dove, tenendo conto dei costi di estrazione e della distanza dei luoghi di approvvigionamento, sono le riserve che rimarrebbero inutilizzate: più del 90% del carbone degli Stati Uniti e della Russia, il 66% del carbone della Cina, il 50% del gas e il 20% del petrolio della Russia, il 60% del gas e il 40% del petrolio del Medio Oriente, e così via. Nel complesso, non sarebbe da bruciare l’82% delle riserve di carbone, il 49% di quelle del gas e il 33% di quelle del petrolio.

Il punto è che il valore contabile di molte società considera già le aspettative dei ricavi economici di una buona parte di questo carbone, petrolio e gas che andrebbe lasciato sottoterra. Per questo si parla di “bolla del carbonio”: se si contrasterà seriamente il riscaldamento globale qualcuno dovrà rinunciare a un po’ di profitti, e quelle riserve di combustibili fossili conteggiate come futuri ricavi nei bilanci diventeranno degli stranded assets, ossia degli attivi non recuperabili.

Dichiarazioni preoccupate sul rischio del detenere azioni di queste aziende fossili sono arrivate da nomi che contano negli ambienti finanziari. Da Henry Pulson, ex segretario al tesoro USA, o da Mark Carney, governatore della Bank of England. Ha scritto Martin Wolf, uno dei più influenti commentatori del Financial Times: “È possibile che l’umanità si svegli e faccia gli investimenti necessari per un rapido cambiamento… Se ciò accadesse, le riserve dei combustibili fossili sarebbero nei guai. Investitori attenzione: questo rischio non può essere zero”.

82%: è la percentuale delle riserve di carbone che non deve essere utilizzata se si vuole mantenere l’incremento delle temperature globali al di sotto dei 2°C

Le preoccupazioni (buone notizie per chi ha cuore il clima del Pianeta) derivano anche da quanto successo all’industria del carbone negli Stati Uniti: in pochi anni, 26 grandi compagnie sono andate in bancarotta e 264 miniere sono state chiuse. Sono fallite Peabody Energy e Arch Coal, fra le più grandi e antiche società che hanno estratto e venduto carbone; mentre dal 2009 al 2014 l’indice Dow Jones per l’industria è salito del 69%, il settore del carbone ha perso il 76% del suo valore. Un rapporto di HSBC, uno dei più grandi gruppi bancari del mondo, ha tradotto l’effetto della bolla del carbonio in potenziali perdite del valore di capitalizzazione anche per le compagnie dell’oil&gas europee, come BP, Total, Statoil o l’italiana Eni: varia dal 6 al 17%. E se si aggiunge il rischio legato alla diminuzione dei prezzi che potrebbe derivare da una minore richiesta di petrolio e gas per effetto di una politica sul clima, il valore di Borsa scenderebbe del 40-60%. Insomma, la campanella d’allarme sta suonando. Non sappiamo, però, se tutti l’ascolteranno.

Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)

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