Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Diritti / Inchiesta

Il rischio caporalato “conto terzi” nelle vigne del Chianti senese

In apertura, un lavoratore impegnato nella vendemmia. In base ai dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, in Italia sono 400-430mila i lavoratori irregolari in agricoltura e potenziali vittime di caporalato - © Marzia Minore

Nel settembre scorso tre persone sono state arrestate a Siena con l’accusa di “intermediazione illecita”: avrebbero gestito una ditta che forniva manovalanza. Una modalità che potrebbe essere usata per camuffare sfruttamento

Tratto da Altreconomia 198 — Novembre 2017

Moussa ha 20 anni e viene dal Senegal. Abita in una struttura di accoglienza per richiedenti asilo in provincia di Siena. Con altri ragazzi africani, a settembre ha lavorato alla vendemmia: “Il lavoro ce l’ha trovato un conoscente tunisino. Dice che ci paga 6 euro all’ora, ma non abbiamo ancora visto il contratto. Tutte le mattine ci prende con un pulmino. Lavoriamo in posti diversi”. Per Moussa (il nome è di fantasia) e i suoi amici, che sono in Italia da circa un anno, è il primo lavoro, cercato da tanto. Sanno che il contratto ci vorrebbe, ma non hanno alternative. Anche la paga promessa è illegale: il minimo sindacale in agricoltura è 7,50 euro l’ora.

A settembre 2017, mentre Moussa lavorava alla vendemmia, poco lontano, tre curdi sono stati arrestati per il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”: in poche parole, caporalato. Condotta dalla Procura di Siena, questa è una delle prime indagini in Italia dall’entrata in vigore della nuova legge 199 del 2016, che offre strumenti più efficaci contro lo sfruttamento. L’azienda gestita dagli arrestati aveva sede giuridica in provincia di Grosseto e più basi operative, alcune nel cuore del Chianti senese. Forniva, secondo le stagioni, operai agricoli ad aziende toscane e di regioni vicine, ad esempio per la vendemmia o per la raccolta delle olive. In termini tecnici era un’azienda contoterzista, ossia una realtà che procura un servizio, in questo caso manodopera, a un’azienda committente. Sulla carta tutto legale, lavoratori registrati e buste paga. Nei fatti, almeno 40 braccianti stranieri (ma la rete è tutta da ricostruire) lavoravano in condizioni di sfruttamento. Uomini tra i 20 e i 40 anni, africani, afgani, pakistani, alcuni da molto tempo in Italia, erano prelevati ogni mattina, a volte con ore di viaggio per raggiungere il terreno assegnato, pressati con ritmi estenuanti, con la minaccia di non lavorare per alcuni giorni se non avessero eseguito in tempo il compito. “Un lavoro che avrebbe ammazzato un uomo in pochi anni”, ha detto uno di loro. Con varie irregolarità: straordinari e Tfr (trattamento di fine rapporto) non pagati, assenza di controlli medici, meno ore dichiarate in busta paga, strumenti agricoli a proprio carico.

A Vagliagli e a Castellina in Chianti, accanto alle ville degli inglesi, ai borghi e ai castelli, nel paesaggio simbolo nel mondo di bellezza e di armonia, molti di quei braccianti vivevano accalcati in case fornite dalla ditta, in condizioni igieniche precarie, senza riscaldamento né acqua calda.  Quello del Chianti è forse un caso estremo, ma tra contoterzismo e sfruttamento sembra esserci un legame di fondo. Lo evidenzia Federico Oliveri, ricercatore presso l’università di Pisa, che ha parlato di “esternalizzazione” e di “giuridificazione” dello sfruttamento. “Le aziende contoterziste, dette aziende senza terra, sono di diversi tipi: alcune forniscono macchinari specializzati, altre procurano forza lavoro. Nel secondo caso il rischio di un caporalato mascherato è altissimo. È il nuovo caporalato, un fenomeno diffuso in tutta Italia, soprattutto nel Centro-Nord. La peculiarità è che gli intermediari non sono singoli caporali, come al Sud, ma enti formalmente costituiti”.

Accanto alle ville degli inglesi, ai borghi e ai castelli, molti di quei braccianti vivevano accalcati in case fornite dalla ditta in condizioni igieniche precarie

Il sistema del contoterzismo nasce dalle esigenze delle aziende, che per molti lavori stagionali hanno bisogno di manodopera flessibile e non qualificata. Appaltando la forza lavoro a una ditta esterna, l’azienda si libera dalle responsabilità; paga un prezzo pattuito e delega la gestione degli operai e delle loro buste paga alla ditta contoterzista. Spesso fingendo di non vedere che a un vistoso risparmio corrisponde una situazione di illegalità. Sono i lavoratori stranieri, ormai un anello strutturale dell’agricoltura italiana (il 35% dei braccianti in Italia secondo il Dossier statistico immigrazione 2016 di IDOS, considerando solo i contratti regolari) quelli più coinvolti, nelle loro diverse condizioni giuridiche: comunitari, persone con un permesso di lavoro o di protezione umanitaria, residenti stabili e ultimamente anche richiedenti asilo, la categoria più debole.

E, come nel caso dei curdi, sono gli stessi stranieri, quelli che vivono da più tempo nel territorio e hanno più contatti, ad essere titolari di aziende contoterziste. “L’impressione è che le ditte contoterziste siano molto diffuse nella vitivinicoltura senese, utilizzate da aziende medio-piccole e grandi -spiegano dalla Flai-Cgil di Siena-. Impiegano lavoratori tunisini, marocchini, romeni, bulgari, molti risiedono stabilmente e hanno famiglia. In vigna si lavora tutto l’anno, la vendemmia è il lavoro meno qualificato, in inverno per la potatura servirebbero lavoratori con esperienza, ma per risparmiare si prendono anche i meno qualificati”. Le differenze tra italiani e stranieri sono palesi già da come si trova il lavoro.

199, è il numero della legge varata nel 2016 che offre strumenti più efficaci contro lo sfruttamento lavorativo. Oltre ai caporali, punisce anche i datori di lavoro che fanno ricorso a questa forma di reclutamento

Da sempre la vendemmia richiama studenti e pensionati italiani, ma se i loro contratti spesso passano per il Centro per l’impiego, per gli stranieri il tramite è il passaparola, la rete informale di amicizie e conoscenze, dove il rischio di illegalità è maggiore. Certo, in Toscana non ci sono ghetti, lo sfruttamento non assume le forme estreme che ha in altre regioni. È una situazione a macchia di leopardo dove ci sono anche aziende sane, attente alla legalità. “Ma è un mondo ancora tutto da scoprire -dicono alla Flai- più che il lavoro nero, è diffuso il grigio. Si dichiarano 102 giornate e se ne lavorano 180, non si rispettano i minimi sindacali. Anche la sicurezza è un problema, gli incidenti sul lavoro sono tanti, tipici quelli dei trattoristi, quando le macchine sono vecchie”. Anello più debole della catena, i braccianti stranieri raramente denunciano le situazioni di illegalità. A volte non sono consapevoli, non conoscono il sindacato e non sanno leggere la busta paga. Capita che datore di lavoro e lavoratore abbiano la stessa nazionalità, siano legati da una rete di amicizie e di parentele.

“Di questa tipologia di lavoratori, alcuni arrivano da noi solo quando la situazione è irrecuperabile, ad esempio quando non ricevono lo stipendio da mesi” dice Rosanna Belfiore, dell’ufficio vertenze legali della CGIL di Siena. “Ci è successo, ad esempio, con dei lavoratori tunisini, due addirittura al nero, e con degli afgani”. Nel corso dell’ultima vendemmia, i sopralluoghi a campione svolti dell’Ispettorato del lavoro della provincia di Siena hanno evidenziato anche un aumento del lavoro nero: 58 persone, in media 1,05 lavoratori per ogni azienda ispezionata.

“La peculiarità è che gli intermediari non sono singoli caporali, come al Sud, ma enti formalmente costituiti” (Federico Olivieri, ricercatore)

Un nodo cruciale sono le aziende intermediarie, i sindacati hanno promosso un Protocollo su salute e sicurezza dei lavoratori in appalto, che comporta controlli maggiori; solo due aziende vitivinicole in tutta la provincia lo hanno firmato. Una è la storica Avignonesi, 164 ettari in produzione da cui escono vini rinomati come il Nobile e il Rosso di Montepulciano. “Ci impegniamo a far lavorare bene e in sicurezza le persone”, dice Virginie Saverys, imprenditrice belga che nel 2009 ha rilevato l’azienda e l’ha convertita gradualmente al biologico. “Per questo abbiamo firmato il Protocollo”. Che mette nero su bianco quanto già previsto dalla legge, ad esempio le tessere identificative dei lavoratori, i dispositivi di sicurezza, i controlli dell’azienda committente sull’azienda appaltatrice. “Abbiamo 110 lavoratori interni, utilizziamo le ditte esterne solo per lavori specifici, ad esempio quelli sulla parte aerea della vite o la movimentazione del terreno”. Avignonesi fa sottoscrivere a quelle ditte un codice etico, e la copiosa documentazione che si deve presentare alle Asl (con requisiti come il responsabile per la sicurezza e le visite mediche dei lavoratori) esclude automaticamente le aziende dubbie. Il fatto che la maggiore parte delle aziende agricole non abbia ancora aderito al Protocollo tradisce la necessità di alcune di queste di “risparmiare” sul lavoro, così come la connivenza che a volte potrebbe instaurarsi tra committenti e contoterzisti. Eppure, a oggi, nessuna etichetta garantisce al consumatore che dietro quella bottiglia di Chianti o di Brunello non ci sia stato lavoro nero o sfruttamento.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati