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Capolinea Mediterraneo: così il decreto del Governo contro Lifeline sovverte il sistema democratico

© Hermine Poschmann

Secondo l’atto interministeriale che ha bloccato la nave Eleonore, i naufraghi non sono naufraghi, la Libia è un Paese sicuro, fuggire da guerre e persecuzioni senza documenti è un reato, respingere verso morte e tortura è legittimo e salvare vite è un crimine. “L’intero impianto valoriale su cui si fonda il il nostro sistema democratico è sovvertito in un piccolo decreto di fine estate”. L’analisi di Gianfranco Schiavone (Asgi)

Mentre scrivo queste brevi e amare riflessioni non so ancora quale sarà la strategia di azione legale che la Ong Lifeline, responsabile della nave Eleonore, intraprenderà rispetto alla decisione assunta dal Governo italiano uscente con il decreto interministeriale del 27 agosto 2019 con cui si dispongono “i divieti di ingresso, nonché di transito e sosta della nave Eleonore nel mare territoriale nazionale”. A premessa della decisione, il ministero dell’Interno così ricostruisce i fatti: “A seguito dell’avvistamento in area SAR libica, da parte di un assetto areo della missione Eunavformed, di un natante con buona galleggiabilità, le competenti autorità libiche, nel quadro delle proprie attribuzioni, hanno confermato ad MRCC Roma di impiegare la motovedetta ‘Obari’ in uscita dal porto di Al Khums, assumendo il coordinamento dell’evento. La nave Eleonore, battente bandiera tedesca, anticipando di fatto l’arrivo della motovedetta libica ed operando in totale autonomia, ha raggiunto il suddetto natante (a circa 31 miglia nautiche dalla Libia, 153 da Malta, 176 dalla Tunisia e 144 da Lampedusa) e ha tratto a bordo 101 persone chiedendo alle autorità maltesi e italiane l’assegnazione urgente di un POS – Place Of Safety”.

Lo scenario fattuale nel quale si sono svolti gli eventi è dunque di estremo interesse: l’avvistamento del gommone è avvenuto nella cosiddetta area SAR libica e le autorità libiche, a quanto pare, vengono allertate dalla missione area Eunaformed, missione dell’Unione europea il cui operato è soggetto al rispetto delle normative vigenti nella Ue in materia di soccorso in mare nonché è soggetto al pieno rispetto della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e in particolare all’art.3 della Convenzione che prevede che “Nessuno possa essere sottoposto a tortura o a trattamenti disumani e degradanti”. Il Governo italiano sorvola con disinvoltura sul fatto che la Libia (intesa come l’attuale governo provvisorio che controlla parte del territorio di quel Paese) non è in grado di fornire alcun porto sicuro e che per il diritto vigente nel nostro Paese, il Place Of Safety non è solo il luogo in cui si possono concludere materialmente le procedure di salvataggio bensì è un luogo nel quale “la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata” (si veda la Risoluzione MSC.167(78), adottata nel maggio 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza insieme agli emendamenti SAR e SOLAS).

Recandosi sul luogo dell’avvistamento del natante e recuperando i naufraghi, precedendo le operazioni delle cosiddette autorità libiche, il capitano della nave “Eleonore” non solo ha agito in conformità alle normative internazionali sul diritto del mare, ma ha agito in piena conformità a quanto disposto dall’art. 3 della CEDU, impedendo, con la sua condotta attiva, che i naufraghi fossero ricondotti in un territorio ove sono esposti al rischio concreto di subire torture e violenze di ogni tipo.

Alla luce di quanto sopra è veramente incredibile quanto sostiene il Governo italiano nel citato decreto interministeriale laddove si legge che “dalle circostanze dell’intervento e dal complessivo modus operandi della stessa (la scelta di operare in autonomia il salvataggio e di chiedere a Malta e Italia l’assegnazione del POS, ndr), potrebbe desumersi l’intenzione di porre in essere un’attività volta al preordinato e sistematico trasferimento illegale di migranti in Italia”. Come già ricordato nell’articolo di pochi giorni fa sulla vicenda della Open Arms al quale si rinvia per brevità, il decreto di impedimento all’accesso al mare territoriale quale misura di prevenzione, per essere legittimo, deve indicare con la massima precisione possibile quali sono, in concreto, gli elementi che fanno ritenere che le condotte messe in atto dal capitano della nave configurino un’ipotesi di reato (che il decreto neppure indica) ma che non può che essere il favoreggiamento dell’ingresso irregolare sul territorio nazionale, ai sensi dell’art.12 del Testo unico sull’immigrazione. Eppure, con evidenza, nessuna di dette condotte si rinviene nell’operato della nave Eleonore che ha doverosamente effettuato un salvataggio di naufraghi evitando che essi venissero trasportati verso luoghi non sicuri e ha quindi chiesto ai due Stati europei più vicini, Malta e Italia, di indicare un POS.

Emerge, nel decreto ministeriale, un totale travisamento dei fatti e una radicale assenza di qualsiasi motivazione giuridica a fondamento della decisione di inibire l’accesso della nave nelle acque territoriali. A rinforzo delle sue strampalate e vacue argomentazioni, il Governo italiano aggiunge che “la medesima attività (l’accesso alle acque territoriali, ndr) potrebbe determinare rischi di ingresso nel territorio nazionale di soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Chi legge si chiederà dunque quali sono gli elementi indiziari per ritenere che tra i naufraghi ci siano nientemeno che soggetti coinvolti in attività terroristiche ovvero se sussistano in tal senso, segnalazioni, anche riservate, di polizia. Nulla di tutto ciò. La ragione è da ricercarsi nel solo fatto che “le persone tratte a bordo della ‘Eleonore’ sono verosimilmente cittadini stranieri privi di documenti di identità e la cui nazionalità è presunta sulla base delle rispettive dichiarazioni”. I naufraghi sul gommone, fuggiti verosimilmente dalle prigioni libiche, non sarebbero quindi naufraghi ma potenziali (anzi probabili) terroristi in quanto -forse- non hanno con sé i propri documenti di riconoscimento.

Se un merito, se così si può dire, l’esaminato decreto interministeriale ce l’ha, sta in una sorta di sconcertante evidenza dei presupposti culturali che vi possiamo scorgere (visto che di giuridici non se ne rinvengono): i naufraghi non sono naufraghi anche se all’apparenza possono apparire tali, la Libia è un Paese sicuro con il quale collaborare attivamente nella gestione dei migranti, fuggire da guerre e persecuzioni senza documenti è un reato (in barba all’art. 31 della Convenzione di Ginevra), respingere verso la morte e la tortura è legittimo, salvare vite umane è un crimine. L’intero impianto valoriale su cui si fonda il nostro sistema democratico è così sovvertito. Tutto in un semplice, piccolo decreto di fine estate. Non stiamo ragionando di politiche sull’immigrazione e delle inevitabili tensioni e divergenze di visioni culturali ad esse collegate. Ragioniamo di altro, ovvero del fatto che, prendendo sommessamente a prestito le parole di Primo Levi nel centenario della nascita (1919), noi tutti che “viviamo sicuri” e che ogni sera rientriamo nelle nostre “tiepide case” ci stiamo abituando a convivere con l’orrore che non avvertiamo più come tale e che è penetrato nella nostra vita quotidiana e nel nostro modo di pensare.

Non basterà cancellare la macchia che hanno rappresentato per la Repubblica italiana nata sulla Resistenza i due decreti sicurezza. Sarà necessario ma non sarà sufficiente se a questa scelta di politica legislativa non si affiancherà, in tutto il Paese e per molto tempo, una profonda rielaborazione culturale su ciò che è stato perché solo così sarà possibile immaginare ancora un presente e un futuro di democrazia e libertà.

Gianfranco Schiavone è vice-presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati Onlus di Trieste

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