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Ambiente / Opinioni

Lotta ai cambiamenti climatici: la transizione non lasci indietro nessuno

COP24 l’ha ribadito: la sfida è ideare e gestire la trasformazione dei territori interessati dalla deindustrializzazione. La rubrica del prof. Stefano Caserini

Tratto da Altreconomia 211 — Gennaio 2019

“Just transition” (transizione giusta, appropriata, equa), questo è il nome con cui ormai a livello internazionale si parla di una delle grandi questioni collegate alla lotta al surriscaldamento globale: trovare nuovi posti di lavoro per chi lo perderà per effetto delle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici.

L’esempio più facile è quello dei minatori di carbone, e se ne è parlato durante la ventiquattresima sessione della Conferenza delle Parti della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (COP24) che si è svolta ai primi di dicembre a Katowice, in Polonia. Il tema della chiusura delle centrali a carbone non poteva che essere l’“elefante nella stanza” alla COP24, in uno Stato, la Polonia, che ha un grande consumo di carbone per la produzione di elettricità.

La scienza del clima non lascia molte alternative: se si vuole avere qualche possibilità di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, le miniere di carbone dovranno velocemente ridurre la produzione ed essere chiuse in un decennio. Idem per le centrali termoelettriche che usano questo combustibile. Ma si potrebbe parlare degli operai delle raffinerie di petrolio o di quelli della filiera delle auto a carburante fossile, di chi costruisce caldaiette a gas: è solo una questione di tempo, dieci o quindici anni in più del carbone, o poco tempo in più.

Ci sono settori che perderanno posti di lavoro, ma altri in cui se ne guadagneranno: la sfida è quindi gestire la transizione. Ricordando che è una transizione inevitabile, e che è già iniziata: molti lavoratori nel settore carbone hanno già perso il lavoro, altri lo perderanno a breve perché a causa dello sviluppo delle energie rinnovabili molte centrali a carbone già oggi non sono competitive, e più passa il tempo e più vanno fuori mercato. La questione centrale è quindi come ideare e gestire politicamente progetti di trasformazione e di rivitalizzazione dei territori interessati dalla deindustrializzazione fossile, per creare altri posti di lavoro decenti, più di quelli persi (nessuno in fondo vorrebbe che il proprio figlio lavorasse in miniera). “I lavoratori vogliono essere al tavolo e non nel menù”, ha scandito una rappresentante dei sindacati europei in un incontro a cui ho assistito alla COP24. I lavoratori vogliono essere considerati nelle decisioni, nella governance delle trasformazioni, vogliono essere riconosciuti come attori importanti. Quando parlano di Just transition i sindacati chiedono che la grande transizione energetica avvenga con i lavoratori, non contro. Un’altra frase più volte sentita è stata “non lasciamo indietro nessuno”: i lavoratori vogliono poter beneficiare della transizione, sanno che indubbiamente porterà più benefici che costi, ma un po’ di costi economici e sociali ci saranno e non devono essere ignorati.

Evitare che questo cambiamento crei povertà e tensioni fra le persone che perderanno il posto di lavoro attuale nei settori delle industrie più inquinanti è quindi una grande questione politica e sociale. Attuali, come hanno fatto intuire anche le notizie sulle manifestazioni dei gilet gialli. La questione chiave è, ancora una volta, quella dei tempi: visto che dobbiamo fare a meno del carbone entro il 2030 nell’Unione europea, dobbiamo occuparcene ora. Ma non è solo una questione europea: la “Just transition” va applicata a livello globale perché è a quella scala che il clima sta cambiando.

Stefano Caserini è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro è “Il clima è (già) cambiato” (Edizioni Ambiente, 2016)

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