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Calcio e vetrine mondiali. Occhio allo sponsor – Ae 27

Numero 27, aprile 2002 Quattro miliardi di persone il prossimo giugno resteranno incollati di fronte alla tv. Il quadriennale rito dei Campionati mondiali di calcio sta per compiersi, questa volta in Giappone e Corea. A non vedere ventidue strapagati atleti correre…

Tratto da Altreconomia 27 — Aprile 2002

Numero 27, aprile 2002

 Quattro miliardi di persone il prossimo giugno resteranno incollati di fronte alla tv. Il quadriennale rito dei Campionati mondiali di calcio sta per compiersi, questa volta in Giappone e Corea. A non vedere ventidue strapagati atleti correre dietro a un pallone in perfetta tenuta sportiva saranno però proprio le persone che hanno prodotto pantaloncini e scarpette per quei giocatori. Perché saranno come ogni giorno in fabbrica a lavorare, per dieci ore consecutive.

Le condizioni di lavoro nell'industria dell'abbigliamento sportivo nei Paesi in via di sviluppo sono tristemente note. Il caso più clamoroso risale al 1996, quando le foto di bambini pakistani che cucivano palloni della Nike fecero il giro del mondo (provocando non pochi problemi alla multinazionale statunitense).

In occasione dei prossimi Mondiali di calcio -e sfruttandone l'eccezionale eco- numerose associazioni e organizzazioni non governative in tutto il mondo si sono mobilitate per riportare alla ribalta la questione delle sweatshops, le aziende di abbigliamento sportivo che sfruttano i propri dipendenti. Fabbriche dove sono all'ordine del giorno impossibili orari di lavoro (fino a 70 ore settimanali), stipendi sotto il livello di sopravvivenza (su ogni paio di scarpe prodotto va al lavoratore solo lo 0,4% del prezzo finale, meno di mezzo euro), condizioni disumane e lavoro infantile. Il 65% della produzione mondiale è in Cina (dove solo la Nike -leader incontrastato del settore- ha una quarantina di aziende con oltre 100 mila operai), il resto si divide tra Indonesia, Vietnam e gli altri Stati del Sudest asiatico, ma anche in America Latina e nei Paesi ex socialisti dell'Europa orientale. Nel distretto di Sialkot, in Pakistan, si concentra l'80% della produzione mondiale di palloni da calcio, e si calcola siano impiegati 10 mila bambini.

Oltre alla Clean Clothes Campaign (campagna “Abiti puliti”, http://www.cleanclothes.org) è scesa in campo la Global March contro il lavoro minorile (http://worldcup.globalmarch.org/world-cup-campaign/, il riferimento italiano è l'ong Mani Tese) che ha anche dato il via a una petizione on line. Nel 1996 la Fifa (la federazione che raccoglie le squadre mondiali di calcio) aveva concordato con la Confederazione internazionale dei sindacati liberi (Icftu) un codice di condotta da applicare nella concessione delle proprie licenze e nell'accettazione dei propri sponsor. Il codice contiene numerosi richiami alle convenzioni fondamentali dell'Organizzazione internazionale del lavoro (come il divieto al lavoro minorile e a quello forzato, non discriminazione nell'occupazione, libertà di associazione e diritto di contrattazione collettiva), parla di obbligo a corrispondere salari equi, orari di lavoro di 48 ore settimanali al massimo, obbligo per i fornitori a permettere ad ispettori qualificati l'accesso ai siti produttivi. E questo per ogni anello della catena produttiva, comprese le ditte appaltate dai licenziatari delle marche famose. La campagna chiede che la Fifa applichi l'accordo, mai sottoscritto, nonostante le dichiarazioni, a causa delle pressioni della Federazione mondiale delle industrie di prodotti sportivi (Wfsgi). La Wfsgi ha proposto un proprio codice di condotta, che tuttavia non è vincolante ma contiene solo raccomandazioni per i propri aderenti, e soprattutto riduce l'importanza di criteri internazionalmente riconosciuti, facendo riferimento ad “ambienti diversi da un punto di vista legale, economico, sociale e culturale”.

In Italia la campagna ha preso il nome di “Altromondiale”. Sta raccogliendo dati sugli sponsor, sulle partnership con le squadre di calcio, e sul giro d'affari delle aziende coinvolte.

Il tentativo è di recuperare anche il maggior numero di notizie sulle produzioni, sugli appalti e i sub appalti, meccanismo attraverso il quale spesso viene coperto lo sfruttamento. E proverà a fare pressione sulle squadre di calcio e sui giocatori perché si prendano a cuore la situazione.

Nel mese di giugno, in concomitanza col Campionato mondiale, la campagna darà vita a numerose iniziative (dalle conferenze ai volantinaggi) per la diffusione dei dati raccolti e per sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni dell'industria dell'abbigliamento sportivo.

Per aderire e sostenere la campagna trovate tutto su www.otromundial.org.

I Mondiali di calcio saranno la più grande vetrina che qualsiasi multinazionale possa sognare. E più grande è la vetrina, maggiori sono le vendite che seguono. Sponsorizzazioni, cartelloni pubblicitari, spot televisivi prima, dopo, durante le partite: solo la Fifa (la Federazione internazionale del calcio) conta 15 partner ufficiali, da Mc Donald's a Toshiba, ognuno dei quali ha sborsato almeno 20 milioni di dollari per poter legare il proprio nome ai Mondiali.

La vera partita però sarà tra le due maggiori marche di abbigliamento sportivo, Adidas e Nike, che si contenderanno -a colpi di fuoriclasse ingaggiati per indossare le loro scarpe o le loro divise- i favori degli appassionati di football. In palio c'è la supremazia in un mercato che vale 30 miliardi di dollari. Un recente studio (“Non siamo macchine”, preparato per la Clean Clothes Campaign, e pubblicato lo scorso marzo), denuncia però che ancora oggi proprio nelle fabbriche indonesiane che lavorano per Nike e Adidas, e nonostante le dichiarazioni delle compagnie, la situazione dei lavoratori rimane problematica. L'Indonesia è il secondo Paese produttore per le due marche: solo Nike ha 11 fabbriche che producono fra i 45 e i 55 milioni di paia di scarpe l'anno. Secondo il rapporto (che fa riferimento a 35 mila operai divisi su 4 fabbriche) i lavoratori percepiscono salari miseri (2 dollari al giorno) e lavorano in condizioni rischiose per la salute. Chi partecipa attivamente al sindacato subisce ritorsioni (che a volte sono vere e proprie minacce) e rischia il licenziamento.

Un autogol di cui le aziende cercano di parlare il meno possibile.

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Dietro a quelle maglie sudate e a quelle scarpe maleodoranti c'è un mercato che vale 30 miliardi di dollari. In cima all'impero dell'abbigliamento sportivo c'è la statunitense Nike, compagnia fondata nel 1972 in Oregon, che con una fetta del 32% sull'intero comparto (e un fatturato per il 2001 di 9,5 miliardi di dollari) sovrasta l'altro grande colosso, Adidas. L'azienda tedesca, fondata nel 1928 da Adolf Dassler, controlla il 17% del mercato e ha venduto prodotti per 5,5 miliardi di dollari. Assieme controllano la metà della produzione totale di abbigliamento sportivo. Dietro loro Reebok (10%, 3 miliardi il fatturato) e poi tutti gli altri.

Adidas è uno dei 15 sponsor ufficiali della Fifa. Tutti gli arbitri e i guardalinee indosseranno magliette e scarpe Adidas, e dell'Adidas sarà anche il pallone (si chiama Fevernova ed è cucito a mano in Marocco). Tra i giocatori ingaggiati come testimonial dalla compagnia tedesca ci sono Alessandro Del Piero, Zinedine Zidane, David Beckham (col quale ha stipulato un contratto da 7 milioni di sterline). Adidas spende in pubblicità e sponsorizzazioni circa un miliardo di dollari l'anno, e in Germania ha un valore di mercato superiore a quello della compagnia farmaceutica Bayer.

Nike al contrario non fa parte degli sponsor ufficiali del Campionato mondiale di calcio. La strategia pubblicitaria della compagnia statunitense è più sofisticata. Si chiama ambush marketing (letteralmente “marketing da imboscata”) e consiste nell'occupare quanti più spazi pubblicitari possibile, sia sulla cartellonistica all'interno degli stadi (quella a bordo campo, per intenderci) che fuori, sia durante le trasmissioni televisive. L'effetto sugli spettatori è l'identificazione del marchio con l'evento sportivo, senza tuttavia un contratto formale (cosa che ha causato le proteste degli sponsor ufficiali, che per avere lo stesso risultato sborsano alla Fifa circa 20 milioni di dollari). Nike spende in sponsorizzazioni 1 miliardo e 900 milioni di dollari l'anno. L'esempio più clamoroso è costituito da Tiger Woods. Il giocatore di golf ha un contratto da 100 milioni di dollari per cinque anni per indossare esclusivamente abbigliamento Nike. Tra i calciatori a marchio Nike ci sono Francesco Totti, Fabio Cannavaro, Luis Figo e Ronaldo. L'intera nazionale brasiliana ha firmato un contratto con Nike che dà diritto a quest'ultima (in cambio della fornitura totale di attrezzature sportive e abbigliamento) di fissare 5 incontri amichevoli all'anno, decidendo anche la formazione della squadra in campo.

Negli Stati Uniti la Nike supera il valore commerciale dell'Ibm.

La nazionale italiana è sponsorizzata da una squadra di trenta sponsor, dalla Fiat alla Nutella.

Le maglie sono fornite dalla Robe di Kappa, società di proprietà della Basic Net (che nel 2000 ha fatturato 222 miliardi di lire). Recentemente Basic Net ha stipulato un accordo con i cinesi del Li-Ning group, operatore dell'abbigliamento sportivo con oltre 2 mila punti vendita, che sarà licenziatario esclusivo dei marchi Kappa e Robe di Kappa.!!pagebreak!!

Sponsor Fifa, il codice mai applicato
Ecco una sintesi del “Codice per la produzione di articoli sportivi su licenza della Fifa”, concordato tra questa e l'Icftu (Conferenza internazionale dei sindacati liberi). Risale al 1996 ma non è mai stato sottoscritto:

1. Non ci sarà uso di lavoro forzato o vincolato.

2. Sarà garantita uguaglianza di opportunità e di trattamento senza distinzioni di razza, colore, sesso, religione, opinione politica, nazionalità, origine sociale (…).

3. Non ci sarà uso di lavoro dei bambini. Devono essere assunti solo lavoratori al di sopra dei 15 anni d'età.

4. Il diritto dei lavoratori di costituire sindacati e di aderirvi e il diritto dei lavoratori stessi di contrattare collettivamente saranno riconosciuti. (…)

5. I salari e le indennità pagati corrisponderanno almeno ai livelli minimi legali o del comparto produttivo, per essere sufficienti per le necessità-base.

6. Le ore di lavoro saranno conformi alle leggi applicabili e alla media del settore produttivo. Ai lavoratori non sarà normalmente richiesto di lavorare più di 48 ore a settimana, né saranno richieste più di 12 ore di straordinario.

Ai lavoratori si dovrà concedere almeno un giorno libero ogni 7.

7. Sarà assicurato un ambiente di lavoro sicuro e igienico e saranno promosse le migliori norme inerenti la salute e la sicurezza (…).

8. I datori di lavoro cercheranno di dare occupazione sicura e stabile e si asterranno dall'uso eccessivo di lavoro temporaneo od occasionale. (…)

9. I licenziatari, i loro appaltatori e subappaltatori si impegneranno a sostenere e a cooperare nella attuazione e monitoraggio di questo codice (…).

Torino si prepara all'Olimpiade 2006: ma la scelta degli sponor si fa adesso
L'ispettrice della Digos chiede: “Quanto durerà ancora l'occupazione?”. Daniela guarda l'orologio e dice: “Direi ancora un'ora, in tempo per andare a prendere i bambini all'asilo”.

Il posto “occupato” è il Lingotto di Torino, che ospita il Toroc, il comitato che sta preparando le Olimpiadi invernali del 2006. Daniela ci spiega: “Siamo arrivati verso le 11.45, eravamo una ventina. Un'occupazione pacifica, cordiale e, come abbiamo chiarito agli impiegati un po' irritati, simbolica”. Qualche striscione appeso, due chiacchiere con i responsabili, l'arrivo della Digos che prende i nomi di tutti. E all'una tutti a casa (passando prima dall'asilo).

Mancano quattro anni ma sotto la Mole c'è già aria di Olimpiade, specie se si tratta di trovare i soldi. Tra sponsor e merchandising il Toroc conta di recuperare almeno 500 milioni di euro.

Perché il Toroc scelga i propri sponsor con criterio si stanno mobilitando i nodi lillipuziani di Torino e Biella, i disobbedienti del gruppo “.Zip”, le Botteghe del commercio equo, la Mag 4 e l'associazione non violenta Mir. Di tempo ne manca, ma meno di quel che possa sembrare. I partners scelti a Torino -a differenza di quelli scelti dal Comitato olimpico internazionale (Cio), già decisi- andranno indicati entro questo settembre. Da qui l'idea di un'azione pacifica per chiedere che la scelta cada su aziende che rispettino l'ambiente, i diritti dei lavoratori, la salute. Società certificate dall'SA8000, magari (SA8000 è la certificazione che attesta il comportamento aziendale in tema di lavoro). “Ci piacerebbe una sorta di carta di intenti, ma non solo per le sponsorizzazioni” spiega Daniela. “Ad esempio: che i nuovi impianti siano progettati in funzione del loro utilizzo dopo le due settimane di Olimpiade, e non viceversa”.

Oltre Torino l'Olimpiade coinvolgerà Bardonecchia, Claviere, Oulx, Pinerolo, Pragelato, San Sicario, Sauze d'Oulx, Sestriere, Torre Pellice. Gli sponsor ufficiali del Cio, il cui contratto andrà però rinnovato nel 2004, sono Coca Cola, la compagnia di assicurazione e di investimenti John Hancok, la Kodak, Mc Donald's, Panasonic, Samsung, Visa, Xerox, l'azienda informatica SchlumbergerSema, la rivista Sport Illustrated.

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