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Diritti / Approfondimento

La buona accoglienza dei migranti vulnerabili, esclusi per decreto

La presa in carico di richiedenti asilo e titolari di protezione è una sfida per il sistema sanitario territoriale. Il provvedimento del governo approvato a fine 2018, però, mette a rischio il lavoro svolto. C’è chi prova a resistere

Tratto da Altreconomia 213 — Marzo 2019
© Ugo Zamborlini

“Queste persone non possono restare sole, sarebbe disumano”. La voce di Filippo Galbiati, sindaco di Casatenovo (LC) e presidente del Distretto dei sindaci di Lecco, è pacata ma ferma: negli ultimi anni gli amministratori locali, le aziende sanitarie e le cooperative hanno lavorato sodo per garantire ai richiedenti asilo e rifugiati con problemi di salute mentale una presa in carico adeguata. Con l’entrata in vigore del “Decreto immigrazione” (113/2018), però, tutto questo rischia di essere vanificato: chi ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari non potrà accedere al fu sistema Sprar e rischia di finire per strada. Tra questi, anche le 19 persone con problemi di salute mentale accolte nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) del Distretto di Lecco che vengono seguite dalle cooperative, in stretto rapporto con il Dipartimento di salute mentale dell’Asst di Lecco e Merate (LC): “Vederle uscire dal sistema di accoglienza proprio ora, per me, è incomprensibile -spiega Galbiati-. E non possiamo nemmeno ignorare il fatto che una persona con problemi di salute mentale lasciata sola possa essere pericolosa per sé e per gli altri”.

Di fronte a questa situazione, Galbiati non si è perso d’animo: “Stiamo pensando a dei progetti alternativi di housing, in collaborazione con le comunità del territorio -spiega-. Abbiamo partecipato a un bando del ministero dell’Interno e ottenuto le risorse con cui pagare équipe di medici, educatori e assistenti per garantire un’assistenza adeguata”.

La presa in carico dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione che soffrono di problemi di salute mentale rappresenta da anni una sfida per il sistema sanitario. “La situazione sul territorio nazionale è molto variegata -spiega Massimiliano Aragona, coordinatore del gruppo di lavoro sulla psichiatria transculturale della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm, simmweb.it)-. Ci sono eccezioni virtuose, ma in generale il sistema pubblico tende ad arrancare: non è attrezzato né dal punto di vista della capacità di accoglienza, né per la tipologia di risposta”.

Tra le eccellenze c’è il Centro di salute per migranti forzati “SaMiFo”, nato nel 2006 dalla collaborazione tra il Centro Astalli (il servizio dei gesuiti per i rifugiati) e quella che oggi è l’Asl Roma 1. Il Centro offre assistenza medica con una particolare attenzione ai bisogni di salute mentale delle vittime di violenza intenzionale e di tortura. “Uno dei problemi principali per la nostra utenza riguarda l’accesso ai dipartimenti di salute mentale -spiega lo psichiatra Giancarlo Santone, tra i fondatori del SaMiFo-. La difficoltà maggiore è la mancanza di mediazione linguistico-culturale adeguata”. Per questo motivo, all’interno del SaMiFo è presente, oltre all’équipe medico-sanitaria, un team di mediatori linguistici e culturali altamente qualificati per garantire una presa in carico efficace, fin dal primo contatto con i pazienti. Sugli oltre duemila utenti che hanno bussato alla porta del SaMiFo nel corso del 2017 (per un totale di 6.300 visite) sono state 217 le persone che hanno usufruito del servizio di psichiatria e 135 coloro che hanno chiesto supporto psicologico. “La situazione che affrontiamo più frequentemente riguarda i disturbi da stress post-traumatico (PTSD, ndr) e disturbi dissociativi causati dai traumi subiti nel Paese d’origine o durante il percorso migratorio”, elenca Santone.

Un’altra organizzazione con sede a Roma fotografa una situazione allarmante: l’80% dei migranti seguiti dai progetti di riabilitazione medico-psicologica per le vittime di tortura di Medu in Sicilia e nella Capitale (500 pazienti) tra il 2014 e il 2018 presentava ancora segni fisici compatibili con le violenze subite durante il viaggio: detenzioni arbitrarie, sequestri, abusi fisici e sessuali, torture per estorcere denaro. “Si tratta di traumi ripetuti e complessi, che hanno un potenziale psicopatogeno molto alto e creano una sofferenza psichica molto più elevata rispetto ai traumi semplici che può subire, ad esempio, chi sopravvive a un incidente stradale”, spiega Alberto Barbieri, coordinatore di Medu. I sintomi più frequenti sono episodi intrusivi, flashback che fanno rivivere il trauma, incubi: “La persona si sente sempre in pericolo e minacciata -aggiunge Barbieri-; prova vergogna per quello che ha subito e rabbia. A questo si può sommare l’effetto depressivo e la tendenza a isolarsi”. Con l’attività del Centro Psychè, Medu prova a dare una risposta a queste sofferenze, grazie a un approccio che unisce la dimensione clinica a quella psico-sociale (attraverso attività di informazione e orientamento, laboratori di musica e teatro) volto alla piena integrazione del paziente nella società che lo accoglie.

“La difficoltà maggiore con chi accede ai nostri dipartimenti di salute mentale è la mancanza di mediazione linguistico-culturale adeguata” – Giancarlo Santone

Non tutte le persone che vivono eventi traumatici estremi o gravi episodi di violenza personale sviluppano PTSD o altri disturbi: “La letteratura scientifica internazionale ci dice che questo avviene per il 30-40% dei rifugiati -puntualizza Santone-. E da questi disturbi si può guarire: con un giusto approccio e una terapia psichiatrica o psicologica corretta è possibile curare queste ferite, lasciando solo una cicatrice”. Il percorso terapeutico, però, non può prescindere da una buona accoglienza e da una condizione di benessere minimo: “Non si può pensare di curare una persona lasciandola per strada”, puntualizza Martino Volpatti, operatore del Centro Astalli. “È ancora presto per misurare gli effetti del decreto sulla presa in carico delle persone con problemi di salute mentale -aggiunge-. Vediamo però i problemi del sistema d’accoglienza: chi ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari non può continuare il percorso in accoglienza e finisce per strada. Inevitabilmente le condizioni di salute, compresa quella mentale, sono destinate a peggiorare: il rischio è quello di cronicizzare la patologia, incorrere nell’abuso di alcol e sostanze stupefacenti a scopo di auto-terapia”.

© Casa della Carità

Un rilevamento a campione condotto da Altreconomia, basato sui dati forniti dalle Prefetture al 31 dicembre 2018, mette in evidenza come molti “vulnerabili” (tra cui coloro che soffrono di problemi di salute mentale) che si trovavano all’interno del sistema di accoglienza siano titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. In provincia di Belluno, ad esempio, su 19 persone in condizione di vulnerabilità, 18 avevano un permesso di soggiorno per motivi umanitari; a Rovigo si registra la quasi assoluta coincidenza tra i due gruppi (66 su 68); a Pavia 20 titolari di protezione umanitaria su 31 rientrano nella categoria dei vulnerabili.

“Dovevamo accogliere una ragazza molto sofferente in uscita da un CAS, ma essendo lei titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari non abbiamo potuto farlo”. Peppe Monetti, responsabile dell’area accoglienza della Casa della Carità di Milano, è uno degli operatori del progetto Sprar DM dedicato alle persone con problemi di salute mentale e attivo dal 2014, che mette a disposizione otto posti letto. Sono 25 i progetti di questo tipo in tutta Italia, per un totale di 170 persone accolte, che offrono una risposta mirata ai casi più fragili e complessi.

“Non si può pensare di curare una persona lasciandola per strada, ma chi ha un permesso umanitario non può continuare il percorso in accoglienza” – Martino Volpatti

Chi arriva allo Sprar della “Casa della Carità” solitamente proviene da centri non specializzati o direttamente da un ospedale, dove è stato ricoverato a seguito di una crisi. Nella struttura milanese vengono seguite sul piano sanitario (in collaborazione con il Centro di consultazione etnopsichiatrica dell’ospedale Niguarda di Milano) e del riconoscimento dei diritti di cittadinanza, ad esempio per ottenere l’invalidità civile. “Molte persone che sono arrivate da noi mostravano i sintomi del PTSD. Noi li aiutiamo nell’assunzione della terapia per trovare un buon compenso psicopatologico e iniziare un percorso d’integrazione, anche lavorativa -spiega Monetti-. Gestendo queste crisi in maniera adeguata, i ricoveri in ospedale diminuiscono rapidamente. Quasi sempre siamo riusciti a evitare ai nostri ospiti il trauma del trattamento sanitario obbligatorio”.

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