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Diritti / Intervista

Braccianti ridotti in schiavitù in Salento: condannati i caporali, assolti gli imprenditori

© Francesco Mollo / Fotogramma / Ipa

A fine aprile la Cassazione ha riconosciuto per la prima volta il reato di riduzione in schiavitù nel contesto del lavoro agricolo. Una sentenza storica quella del processo “Sabr” che tuttavia ha un retrogusto amaro. “Gli intermediari sono stati condannati, ma i mandanti restano impuniti”, spiega Yvan Sagnet, presidente dell’associazione No Cap che si batte contro il caporalato andando anche oltre la dimensione dell’intermediazione illegale di manodopera

La Corte di cassazione ha chiuso il processo “Sabr” nato in seguito alle denunce nei confronti degli intermediari -i cosiddetti “caporali”- e degli imprenditori agricoli che per anni avevano sfruttato i braccianti stranieri delle campagne di Nardò, in provincia di Lecce. Yvan Sagnet, attivista e presidente dell’associazione No Cap, ricostruisce le tappe principali del procedimento iniziato dodici anni fa e allarga lo sguardo al fenomeno del caporalato in Italia. 

Sagnet, quali fatti hanno portato all’apertura del processo “Sabr”?
YS Nasce grazie a un’inchiesta della Procura di Lecce, coordinata dalla procuratrice Elsa Valeria Mignone tra il 2008 e il 2011. La chiusura delle indagini ha coinciso con lo sciopero dei lavoratori nelle campagne intorno a Nardò, che mi ha visto tra i principali promotori. A seguito dello sciopero io e i miei colleghi abbiamo denunciato agli inquirenti le condizioni di lavoro degradanti, il controllo e la situazione di estrema soggezione a cui eravamo sottoposti. Nel 2012 sono stati arrestati gli imprenditori e i caporali coinvolti e l’anno successivo ha preso il via il processo “Sabr” -dal nome di uno dei caporali-, nel quale il giudice per le indagini preliminari ha riconosciuto che le azioni di sfruttamento perpetrate ai nostri danni potevano costituire una vera e propria riduzione in schiavitù.  

Può ripercorrere le tappe principali della vicenda processuale?
YS In primo grado i tredici imputati -i caporali e i tre imprenditori italiani che si avvalevano della loro intermediazione- sono stati condannati a un totale di 121 anni di reclusione, con pene tra i sette e gli undici anni. Al termine del processo di appello, però, la condanna è stata confermata solo per i caporali, mentre gli imprenditori sono stati assolti. Abbiamo quindi fatto ricorso presso la Corte di cassazione, affinché il reato di riduzione in schiavitù fosse esteso nuovamente anche ai produttori italiani. La Cassazione ha rimandato il giudizio alla Corte di appello, che per la seconda volta ha scagionato gli imprenditori. Quindi abbiamo presentato di nuovo ricorso in Cassazione e, a fine aprile 2025 -tredici anni dopo l’inizio del procedimento-, la Corte si è pronunciata definitivamente condannando i caporali ma assolvendo gli imprenditori. La motivazione addotta è che non sono stati riscontrati elementi sufficienti per ritenere che questi ultimi fossero consapevoli dello sfruttamento in atto.  

Come valuta questa sentenza?
YS Si tratta sicuramente di una decisione storica destinata a fare scuola, perché per la prima volta in Italia e in Europa è stato riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù in ambito lavorativo. Al tempo stesso, però, resta l’amarezza per l’assoluzione dei datori di lavoro, che noi reputiamo i mandanti di questo sistema. Rispetto al reato contestato, secondo noi, era evidente il loro concorso di responsabilità, soprattutto considerando che la riduzione in schiavitù è avvenuta in un ambito -il lavoro agricolo illegale- nel quale ogni minima decisione deve essere approvata da loro. Purtroppo dobbiamo prendere atto che la Cassazione ha espresso un giudizio diverso.  

Yvan Sagnet © Di Mellon89 – Opera propria, CC BY-SA 4.0

Quanto è esteso oggi il caporalato in Italia?
YS Si tratta di un fenomeno persistente, diffuso in tutto il Paese e può presentare varie sfaccettature: non comprende più solo l’intermediazione illegale di manodopera ma anche tutti i reati che violano i diritti e la dignità dei lavoratori. Si parla di caporalato, ad esempio, nel caso in cui la paga di un lavoratore non sia conforme a quella prevista dalla legge o quando le ore di lavoro giornaliere risultino di fatto maggiori rispetto a quanto stabilito dal contratto nazionale. Basandoci su questa definizione, secondo le nostre stime, colpisce oggi circa due terzi della manodopera del nostro Paese. Se consideriamo solo l’intermediazione illecita di manodopera, invece, possiamo dire che colpisce un terzo dei lavoratori.  

Come si inserisce in questo contesto l’associazione No Cap di cui è presidente?
YS L’associazione No Cap è nata nel 2017 e nei primi anni si è contraddistinta soprattutto per le azioni di rivendicazione politica. Dopo due anni di attività siamo passati dalla protesta alla proposta, operando all’interno delle filiere produttive. Il principio alla base di No Cap è semplice: se continuerà a dominare la filosofia del prezzo più basso, a farne le spese sarà sempre il bracciante, l’anello più debole della catena produttiva. Per questo tutto comincia dove ha origine lo sfruttamento, ossia nella mancata sostenibilità economica nella retribuzione degli attori della filiera. I grandi distributori che aderiscono alla rete quindi corrispondono un prezzo giusto per i prodotti e i produttori, senza più l’alibi del “prezzo sostenibile”, si impegnano a rispettare i diritti dei lavoratori. Poi tocca ai consumatori, che possono compiere una scelta politica acquistando i prodotti certificati della rete, riconoscibili grazie al bollino “No Cap”. Insomma siamo un grande movimento in cui ciascuno è chiamato a fare la propria parte. 

Come hanno risposto le diverse realtà della filiera?
YS Le adesioni alla rete sono in costante crescita. Ogni anno nuove aziende si avvicinano alla nostra realtà, anche per aprirsi ai mercati più sensibili verso questo tema. Veniamo contattati direttamente anche da tanti lavoratori che vorrebbero essere impiegati presso un’azienda “No Cap”. Ci impegniamo a mettere in contatto l’offerta e la domanda di lavoro legale e, ad oggi, siamo riusciti a strappare ai caporali circa quattromila lavoratori, inserendoli in più di 400 aziende agricole. Sosteniamo ciascuno di loro anche nella ricerca di un alloggio dignitoso, così che possano uscire dai ghetti in cui hanno vissuto sotto sfruttamento.  

La legge 199 del 2016 per il contrasto del caporalato, ad oggi, secondo lei è sufficiente?
YS Riconoscendo il caporalato come un reato (quindi penale) questa legge ha rappresentato certamente un passo avanti perché ha riempito un vuoto normativo che di fatto garantiva l’impunità agli imprenditori e ai caporali. D’altra parte, però, pensare che questa norma possa risolvere il problema strutturale e sistemico dello sfruttamento lavorativo facendo leva sulla sola repressione è un’illusione.  

Che cosa dovrebbero fare le istituzioni per contrastare in maniera più efficace questo fenomeno criminale?
YS Lo Stato finora ha trascurato le azioni di prevenzione. Ma solo lavorando in questo senso si potrà sradicare completamente la piaga del caporalato. Ciò significa che le istituzioni dovrebbero operare una riforma complessiva del mercato del lavoro, affrontare il tema dell’intermediazione legale, riformare i centri per l’impiego, mettere in campo una serie di meccanismi per creare e monitorare la tracciabilità nell’incontro tra offerta e domanda di lavoro legale. Il caporalato è un tema cruciale per il futuro del nostro Paese ma il modo con cui il governo attuale -così come quelli che lo hanno preceduto- lo sta affrontando è insoddisfacente. I diritti dei lavoratori devono tornare al centro del dibattito. 

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