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Economia / Inchiesta

Boom di ricavi e poche tasse: il 2020 di Google e Facebook in Italia. Grazie all’Irlanda

Nell’anno della pandemia e della crescita dei ricavi pubblicitari online, le succursali dei due colossi sono riuscite complessivamente a pagare meno tasse rispetto al 2019. Al centro della struttura societaria c’è ancora l’Irlanda. “Confido nell’intervento degli ispettori fiscali per la verifica mirata degli accadimenti”, spiega l’esperto di riciclaggio Gian Gaetano Bellavia in merito alle operazioni infragruppo

© Unsplash - Mitchell Luo

Nell’anno della pandemia e del boom dei ricavi pubblicitari online per le multinazionali della Rete, le succursali italiane di Google e Facebook hanno visto schizzare i fatturati rispettivamente del 175% e dell’88%, riuscendo complessivamente a pagare meno tasse rispetto al 2019 (7,4 milioni di euro contro 7,9). Il tutto grazie a una struttura societaria che, nonostante gli annunci, continua ad avere al centro l’Irlanda. È quanto emerge dai bilanci 2020 depositati in estate da Google Italy Srl e Facebook Italy Srl e che abbiamo letto con Gian Gaetano Bellavia, commercialista, esperto di Diritto penale dell’economia e di riciclaggio.

Partiamo da Google Italy: nel 2020 ha registrato ricavi per 505,8 milioni di euro, quasi il triplo di quelli del 2019 (184,1 milioni). L’incremento è dovuto al “nuovo modello” adottato il primo novembre 2019 dalla filiale di Google nel nostro Paese, passata da essere mero agente della consociata Google Ireland -dalla quale riceveva ogni anno una minima quota dei ricavi pubblicitari sotto forma di royalties– a “rivenditore” diretto. Sulla carta questo schema avrebbe dovuto garantire allo Stato che l’attività pubblicitaria condotta in loco dalla multinazionale fosse dichiarata e tassata in Italia, ponendo fine alla triangolazione con Dublino. Non è andata proprio così.

All’aumento dei ricavi, infatti, ha fatto seguito una più che proporzionale esplosione dei costi, passati dai 165,1 milioni del 2019 ai 486,2 milioni del 2020, più 194%. La stragrande maggioranza di questi oneri (363,3 milioni di euro), che Google imputa al “nuovo modello di business“, è riferita proprio al “fornitore” Google Ireland Ltd. Che cosa venda la società irlandese alla succursale italiana non è riportato in bilancio. Il risultato di questa operazione infragruppo -dove chi fa il prezzo e chi acquista è lo stesso gruppo- è di ridurre l’imponibile per Google Italy rispetto al nostro erario, meno benevolo di quello irlandese.

Non solo: nel 2020 Google ha continuato a spostare ingenti ricavi pubblicitari realizzati in Italia direttamente in Irlanda. La quota di inserzionisti che hanno pagato direttamente la Google Italy Srl è infatti una ristretta cerchia di “designati”, come si legge nel bilancio. La quota rimanente ha invece avuto rapporti commerciali con Dublino (Google Ireland Ltd), che a sua volta, come da “vecchio” schema, ha versato una percentuale in termini di royalties a favore della società domiciliata a Milano per 68,9 milioni di euro.

L’identica formula vale per la Facebook Italy, che dal primo agosto 2019, poco prima di Google, avrebbe “esteso la sua funzione di rivenditore di servizi pubblicitari a clienti italiani designati” (dal bilancio). Per questo nel 2020 la succursale di Facebook ha toccato quota 244,2 milioni di euro di fatturato a fronte dei circa 130 milioni del 2019 (più 87,8%). Ed ecco schizzare anche i costi: 237,6 milioni di euro nel 2020 contro i 121,8 del 2019 (più 95%).

Come per Google, anche per Facebook si tratta prevalentemente di addebiti infragruppo (209,2 milioni). Mentre Google non spende una parola nel dettagliare natura e contenuti, Facebook nel bilancio 2020 utilizza espressioni piuttosto vaghe: “I costi […] si riferiscono all’acquisto di magazzino pubblicitario relativo all’attività di rivendita pubblicitaria”.

Un’altra analogia riguarda i ricavi: è confermato anche per Facebook infatti il mantenimento dell’attività di vendita e marketing forniti dalla succursale italiana a favore della consociata irlandese per 8,8 milioni di euro in termini di royalties.

“La situazione che emerge dai bilanci di due società completamente diverse fra loro è quasi comica -commenta Gian Gaetano Bellavia-. Fanno parte di due gruppi completamente diversi a livello mondiale ma fanno esattamente le stesse cose”. In che senso? “Nel settore della pubblicità online entrambe le società sono in regime di monopolio, come Autostrade per l’Italia dei Benetton, che proprio grazie alla sua posizione monopolistica stabiliva le tariffe e aveva una redditività del business anche fino al 30% dei ricavi. Questo perché Benetton poteva operare sui ricavi ma non aveva nessuno che gli aumentava i costi per abbattere i ricavi. Ebbene i due monopolisti del Web sono intorno al 2%. Inoltre la struttura societaria relativamente ai costi per servizi è la medesima: arrivano dall’Irlanda tutti i costi necessari ad abbattere i ricavi”.

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Non c’è nulla di occulto, lo schema è esplicitato nei bilanci. “Esatto. Rispetto ai colossi del Web si tende di solito a immaginare chissà quali strutture societarie articolate e complesse per non pagare imposte. In realtà è molto semplice: gli utili li realizzano probabilmente in Irlanda, dove avranno fatto un accordo per pagare pochissimo. Però queste grosse società in realtà fanno il loro interesse ed esplicitano tutto nei bilanci, in maniera tale che chiunque possa capire i meccanismi”.

Il vero problema per Bellavia sono le “regole che non ci sono nell’ambito dell’Unione europea”. “Finché l’Ue non si doterà di un sistema fiscale uniforme in tutti gli Stati ci saranno sempre coloro che fanno concorrenza fiscale sfrenata o comunque concorrenze in tutti i campi dove le società possono avere vantaggi, posizionandosi qui e là: Lussemburgo, Olanda, Irlanda, Malta ne sono l’esempio, senza parlare della Svizzera che non fa parte dell’Unione pur essendo evidentemente un Paese europeo a tutti gli effetti”.

L’immobilismo dei Paesi asseconda quella che per Bellavia è “l’evoluzione del capitalismo che in questi ultimi decenni non lascia spazio ad altro che non sia la massimizzazione dell’utile”. “È lo Stato che deve fare da regolatore, in questo caso l’Ue”, aggiunge l’esperto di Diritto penale dell’economia e di riciclaggio.

“Rimane però il problema della correlazione dei costi con i ricavi”, chiarisce Bellavia. Si spieghi. “Gli addebiti che arrivano dall’Irlanda e che le due società riportano in bilancio sono corretti? Questo è un compito che deve risolvere l’Agenzia delle Entrate italiana che ha tutti gli strumenti tecnici e di risorse per intervenire efficacemente sulla questione dei prezzi di trasferimento tra una società di diritto italiano è una società di diritto estero. L’Agenzia delle Entrate, soprattutto a Milano, lo fa con grande efficacia e quindi bisogna confidare nell’intervento degli ispettori fiscali per la verifica mirata degli accadimenti, al di là delle questioni di scenario che appaiono purtroppo fin troppo chiare”.

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