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Nel cuore di Boko Haram. Intervista a Wolfgang Bauer

All’inizio di maggio sono state rilasciate 82 delle 276 studentesse rapite in Nigeria da Boko Haram. Ma l’attenzione mediatica sulle tragedie africane scema troppo in fretta. Spetta all’informazione tenere accesa una luce. Come fa Wolfgang Bauer, giornalista e inviato di “Die Zeit”

Tratto da Altreconomia 192 — Aprile 2017
Wolfgang Bauer, giornalista tedesco, inviato del quotidiano "Die Zeit" - www1.wdr.de/radio

Sulle mappe della Nigeria la foresta di Sambisa è un puntino nello stato del Borno, estremo Nord-Est del Paese africano. Un luogo dove gli alberi crescono così fitti da fermare la luce del sole. Inaccessibile e lontano migliaia di chilometri dall’Europa. Una terra di nessuno che potrebbe lasciarci indifferenti. Ma per Wolfgang Bauer, giornalista tedesco del settimanale Die Zeit, “non possiamo ignorare quello che succede a Sambisa”. Perché Sambisa è il cuore del regno di Boko Haram, il gruppo terroristico di matrice jihadista che da anni insanguina le regioni Nord-orientali della Nigeria. Dove vengono tenute prigioniere -tra altre centinaia di donne e ragazze- le 276 studentesse rapite nella notte del 14 aprile 2014 da una scuola di Chibok. Un rapimento di massa senza precedenti che ha fatto conoscere a tutto il mondo il gruppo nigeriano, anche grazie alla campagna mediatica #BringBackOurGirls.

Ma dopo alcune settimane, l’attenzione dei media generalisti sulla vicenda delle ragazze di Chibok è rapidamente calata. “Mi trovo molto a disagio con questo tipo di giornalismo in cui si dedica ad argomenti come questo un titolo in prima pagina per qualche giorno per poi scordarsene rapidamente -spiega Bauer ad Altreconomia-. Quello che faccio per il mio giornale, invece, è andare alla ricerca di storie che mi permettano di affrontare temi complessi con maggiore profondità”. Bauer ha trascorso molto tempo in Nigeria, ha incontrato una sessantina di donne e ragazze sfuggite agli jihadisti: Sadiya 38 anni, Talatu 14 anni, Batula 41 anni, Rabi 13 anni, Sakinah 33 anni e tante altre. I loro racconti sono confluiti nel libro “Le ragazze rapite. Boko Haram e il terrore nel cuore dell’Africa” (La Nuova Frontiera), pubblicato nel 2016.

Quante sono le donne e le ragazze rapite?
WB Ce ne sono ancora centinaia nelle mani dei guerriglieri jihadisti, come le studentesse di Chibok: pochissime sono ritornate a casa. Lo stesso vale per i ragazzi: gli uomini vengono uccisi mentre centinaia di bambini e adolescenti vengono rapiti e costretti a combattere per il gruppo di Abubakar Shekau. Questa è stata la ferita più grave che Boko Haram ha inferto alla Nigeria: in questi anni un’intera generazione di giovani è andata distrutta.

Quale futuro aspetta queste donne?
WB Difficile fare previsioni, il ritorno alla normalità non è facile. Le donne fuggite dalla foresta ora si trovano tra due fuochi. Da un lato il timore di cadere nuovamente nelle mani di Boko Haram, che non è ancora stato sconfitto sul piano militare, e che le vede come traditrici per il fatto di essere scappate. Dall’altro ci sono le numerose milizie di autodifesa -spesso formate da ex criminali- che hanno preso il potere in molti villaggi liberati dagli islamisti: per loro le donne fuggite da Sambisa sono spie di Boko Haram, vengono accusate di essersi convertite all’Islam e per questo vengono viste come una potenziale minaccia.

L’Africa rimane spesso fuori dai media mainstream, come mai?
WB È difficile trovare una risposta. In Paesi come la Germania e il Regno Unito l’opinione pubblica sembra essere maggiormente preoccupata di quello che succede in casa propria: non capiscono la rilevanza di quello che succede lontano da noi. In generale, in Europa non ci piace occuparci del dolore degli altri.
Eppure oggi l’Africa è molto più vicina all’Europa di quanto non fosse pochi anni fa, basta guardare alla questione migratoria: quello che succede oggi in Africa avrà delle ripercussioni nel Vecchio Continente domani. Per questo è importante comprendere meglio quello che succede lì per evitare di commettere gli errori fatti in passato.

Ad esempio?
WB Penso alla crisi siriana. In Germania abbiano ignorato a lungo la guerra in Siria, abbiamo pensato che non fosse una faccenda che ci riguardava… che se la sbrigassero tra loro. Ma ci sbagliavamo. Tutto questo è finito nell’estate 2015 quando centinaia di migliaia di persone in fuga sono arrivate alla stazione di Monaco. E all’improvviso è diventato un nostro problema: ogni città tedesca, anche la più piccola, ha dovuto fare i conti con quella situazione.
Allo stesso modo non possiamo ignorare quello che succede a Sambisa: Boko Haram ha colpito non solo in Nigeria, ma anche in Camerun e Niger. Inoltre c’è una grave crisi politica in Mali, c’è la crisi libica. Non possiamo continuare a ignorare tutto questo: servono soluzioni per stabilizzare questi Paesi e per evitare che la gente sia costretta a fuggire.

A chi fugge, l’Europa risponde sempre più spesso con i muri.
WB Costruire muri non serve a nulla, sono un’illusione. È come pensare di poter fermare il corso di un fiume: non si possono fermare le persone in fuga da una guerra. Troveranno comunque un modo per arrivare, scegliendo strade più pericolose che provocheranno ancora più morti.

Con l’elezione di Donald J. Trump ci siamo risvegliati nell’era delle fake news e degli alternative facts. Quanto è importante oggi fare buon giornalismo?
WB Il buon giornalismo è più importante che mai, soprattutto in momenti di crisi come quello che stiamo vivendo. Sono i giornalisti che hanno il compito di rivelare all’opinione pubblica che cosa c’è dietro le veline dei governi. Il giornalismo di qualità ha un ruolo fondamentale per contrastare le derive autoritarie e per evitare che l’opinione pubblica sia manipolata dalla stampa di regime. Sfortunatamente, ci troviamo davanti a una nuova età dell’oro per il giornalismo.

Quali sono le regole per un buon giornalismo?
WB Verificare i fatti da diversi punti di vista. Attingere da fonti e testimonianze diverse. Non credere con certezza assoluta a ciò che si ritiene giusto o sbagliato.
Ascoltare, ascoltare, ascoltare. Senza avere paura -in un secondo momento- di esprimere la propria opinione. Ed essere sempre disposti a cambiarla, quando ciò che la realtà evidenzia lo rende necessario.

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