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Reportage

Bogotà recuperata

Dalla violenza del conflitto interno che si protrae da 60 anni alle speranza dei lavoratori informali. Viaggio nella capitale colombiana, dove secondo un recente rapporto del Comitato municipale dei diritti umani, la situazione dei bambini che lì vivono è allarmante

Tratto da Altreconomia 178 — Gennaio 2016

L’odore acre e nauseabondo della montagna d’immondizia che sta bruciando da varie settimane sembra voler rappresentare il controllo del territorio da parte delle mafie nel Sud di Bogotà, capitale della Colombia.
In una metropoli di 9 milioni di abitanti (pari al 20% della popolazione nazionale), la segregazione che serpeggia nelle periferie è aggravata da un conflitto armato interno che si trascina da 60 anni, e che contrappone lo Stato, le guerriglie marxiste FARC (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) ed ELN (Esercito di Liberazione Nazionale) e i gruppi paramilitari di estrema destra.
Il rapporto governativo “Ya Basta” ha documentato che 220mila colombiani sono morti tra il 1958 e il 2013, vittime del conflitto e, dato ancora più sconvolgente, che 176mila di essi erano civili.Tra loro Kimy Pernia, leader indigeno del popolo “embera katio” del Alto Sinú assassinato nel 2001 dai paramilitari per la sua opposizione ai progetti minerari che inquinano la Pachamama, la Madre Terra.
In sua memoria è stata costruita una scuola elementare nel quartiere La Rivera di Bogotà, un ghetto di 30mila persone confinante con il maggiore mercato all’ingrosso di frutta e verdura, chiamato “Corabastos”, una sorta di Muro di Berlino in versione colombiana, le cui alte pareti separano il Nord ricco dal Sud povero della capitale.
All’alba delle sei del mattino l’autobus che trasporta i maestri di questa imponente struttura moderna per mille studenti viene scortato dalla polizia municipale. Non si sa se anche oggi i fumi dell’immondizia impediranno le lezioni scolastiche.

Quartieri popolari come La Rivera, Villa Emma, Patio Bonito, Bosa, Ciudad Bolivar sono grandi slums che hanno origini simili. Fino alla metà degli anni 80 queste zone non erano dotate di servizi pubblici (acqua, elettricità, fognatura). Fu grazie all’attivismo dei suoi abitanti, che si raggiunsero importanti conquiste, come l’allacciamento all’acqua e all’elettricità e la pavimentazione di alcune strade del quartiere (ancora oggi una minoranza).
Per le strade sterrate del quartiere Villa Emma (10mila abitanti a fianco di un fiume che spesso straripa) s’incrociano ancora las zorras, carri sgangherati per riciclare, trainati da vecchi cavalli e si notano le file dei sacchi di juta dei riciclatori, stesi tra pericolanti pali della luce. Come strumento di sopravvivenza si mettono tutto il giorno le mani tra le montagne d’immondizia per sbarcare il lunario e spesso lavorando insieme ai propri figli.  Qui le mafie (esplose dopo la falsa smobilitazione dei paramilitari del 2005 anche per il controllo del narcotraffico visto che secondo le Nazioni Unite la produzione di foglia di coca è aumentata del 44%) tollerano solo la cappella fondata da Padre Ivo, anziano missionario francese che ha trasformato un prefabbricato in un centro comunitario, per fare catechismo, l’asilo, la mensa per i desechables, letteralemente gli “scartati”.

I raccoglitori di rifiuti in Colombia sono stati finalmente riconosciuti dallo Stato, dopo 10 anni di battaglie legali grazie alla leadership del sindaco di Bogotá, Gustavo Petro. I riciclatori informali sono adesso ufficialmente fornitori di un servizio pubblico, e dal marzo 2013 ricevono dal municipio l’equivalente di 44 dollari ogni tonnellata di rifiuti solidi riciclabili raccolta e consegnata.Questo introito si aggiunge al ricavo ottenuto vendendo materiale riciclabile pulito e lavorato nei centri di smistamento, che pagano al chilo.
Flor Maria Fernandez Castro, è la coordinatrice dell’Union General de Trabajadores informales de Colombia: “Cominciai a fare questo lavoro sin da molto piccola. Quando avevo sette o otto anni andavo già nelle discariche, o a El Cartucho”, uno slum nel cuore di Bogotá, racconta Flor Maria, le mani callose di una donna che da 40 anni lotta con dignità. “Crediamo nel cambiamento intrapreso dal sindaco Petro che in quattro anni è riuscito a fare uscire dall’estrema povertà mezzo milione di cittadini. Questa riduzione drastica degli indici di povertà avviene attraverso l’inclusione lavorativa di migliaia di riciclatori che ha fatto sì che 43.000 bambini abbandonassero il lavoro minorile sfruttato”.
La regolarizzazione degli oltre 14mila lavoratori che fanno la raccolta dell’immondizia in modo informale ha acceso un grave conflitto che solo la Corte interamericana dei diritti umani è riuscita a risolvere, restituendo le funzioni istituzionali che erano state sospese al sindaco Petro.

Secondo un recente rapporto del Comitato municipale dei diritti umani, la situazione dei bambini che vivono a Bogota è allarmante. L’aumento delle bande criminali, delle reti di micro-trafficanti nelle scuole, della prostituzione infantile, della violenza domestica e la mancanza di posti nelle scuole, creano un quadro drammatico che sfocia nell’aumento di casi di violenza: sono stati assassinati 80 minori nell’arco di quattro mesi nel 2014.
Nonostante le più disparate forme di repressione praticate in queste periferie, questi territori in disputa vantano una lunga storia di attivismo sociale e di resistenza non-violenta, come la Escuela Viajera, il Centro di comunicazione popolare per l’America Latina e la Fundacion Educacion y Desarrollo.
Ivonne Poveda, ex-baby lavoratrice abituata fin da piccola a portare pesanti secchi d’acqua per mancanza dell’aquedotto, sa bene cosa significa lottare contro la povertà. I suoi occhi marroni che si accendono quando parla di riscatto e dignità e del lavoro dell’associazione Escuela Viajera: “I territori periferico-marginali dove opera la nostra Escuela Viajera sono abbandonati anche per l’assenza di investimento sociale da parte dei municipi e dello Stato visto che la maggior parte del bilancio statale viene assorbito dalla guerra, e di conseguenza non vengono soddisfatte le necessità fondamentali legate alla salute, al lavoro, alle garanzie sociali e la lotta contro l’abbandono scolastico, esponendo la popolazione infantile alla probabilità di un reclutamento forzato da parte dei gruppi armati illegali”. Ivonne oggi è docente dell’Università Distrital,  utilizza una metodologia innovativa di recupero delle culture contadine per sanare le violenze e lo sradicamento di tanti bambini sfollati.
Il sociologo Felix Posada ha fondato 37 anni fa il Centro di comunicazione popolare per l’America Latina CEPALC con la speranza che l’educazione popolare diventi strumento di cambiamento. “A Bogotá si stima la presenza di 1.320 pandillas (bande giovanili) con quasi 20mila membri. A livello nazionale in tutta la Colombia si contano 42.000 adolescenti e giovani coinvolti in bande armate che diventano facile manovalanza del crimine in un contesto di estrema diseguaglianza sociale. Come CEPALC facciamo teatro, educazione popolare, comunicazione alternativa per vincere la cultura della morte e della violenza”.
Hilda Molano è direttrice Fundacion Educacion y Desarrollo (FEDES): “Cazuca è un luogo strategico per la connessione con il Sud e oriente del Paese verso il Venezuela. È una zona oggetto di megaprogetti per lo sfruttamento minerario, che concentra numerosi interessi. Dobbiamo aggiungere tutta la problematica sociale di affari illegali come la droga, il traffico d’armi, la prostituzione. In particolare le bambine sono sfruttate dai vari gruppi armati nella prostituzione infantile e per trasportare armi, fenomeno che si è aggravato negli ultimi anni. L’obiettivo dei paramilitari è che i bambini si convertano in raspacines, raccoglitori di foglia di coca”.

La Colombia è l’unico Paese del continente dove i sussidi per i servizi pubblici sono legati alle classi sociali -estratificacion che dipendono dai luoghi di residenza e non dalla dichiarazione del reddito-: se vivi nei ghetti riceverai educazione, sanità, servizi di pessima qualità.
Tuttavia da tre anni non muore a Bogotá nessun bambino per fame; in una Colombia che è considerata il terzo Paese più disuguale del mondo, dove lo 0,4% dei proprietari possiede il 64% della terra, con la seconda peggior crisi umanitaria a livello mondiale, dopo la Siria. In Colombia il 32,2% della popolazione totale del Paese vive in condizioni di povertà.

Da un Paese ricco di risorse naturali ma povero di uguaglianza, dove anche nel linguaggio quotidiano si usa uno slang che stigmatizza gli abitanti di strada, il consumatore italiano può comprare bigiotteria realizzata con bucce d’arancia, i semi riciclati che dall’immondizia diventano opere d’arte, colorate collane che le donne Mujeres Creativas diffondono con orgoglio in Italia attraverso Little Hands di Cantù (www.littlehands.it), Canalete di Valdagno (www.canalete.org), Nats Per di Treviso (www.natsper.org), Sal di Roma (www.saldelatierra.org). 
La pietra scartata diventa bellezza e ricchezza culturale. —

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