Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Cultura e scienza / Intervista

Bertram Niessen. La cultura cresce in nuovi spazi

Dai borghi di montagna ai ristoranti sociali. I luoghi in cui si produce cultura non sono più quelli di una volta, anche per effetto della crisi del 2008. La mappatura di cheFare

Tratto da Altreconomia 238 — Giugno 2021
Cre.zi è uno spazio nato all’interno dei Cantieri culturali della Zisa a Palermo dove sono attivi una social kitchen, un’area coworking, officine condivise e uno spazio per eventi © Archivio cheFare

I nuovi centri culturali sono residenze d’artista nei borghi di montagna, bagni diurni dove si lava chi non ha acqua in casa e dove si fanno reading di poesia, fabbriche e caserme riconvertite in auditorium, spazi espositivi, ristoranti sociali. Ma anche centri sociali occupati che sono club, spazi per la danza e laboratori di stampa o vecchi circoli dove a fianco di chi gioca a briscola si riuniscono gli appassionati di robotica. Non è facile confinare né definire una categoria di nuovi centri culturali, perché essi rappresentano “tante esperienze locali molto diverse tra di loro, ma che hanno punti in comune. Quello centrale è che rappresentano spazi multifunzionali per progettazione, produzione e distribuzione di cultura”, racconta Bertram Niessen, presidente e direttore scientifico dell’associazione cheFare, agenzia per la trasformazione culturale che nel febbraio del 2020 ha promosso una mappatura nazionale, laCall to Action: circa 800 sono realtà si sono riconosciute come nuovi centri culturali.

È possibile definire che cosa sono i nuovi centri culturali? Perché in questa storia è importante la crisi del 2008?
BN I nuovi centri culturali sono una realtà diffusa su tutto il territorio italiano, nelle città come nelle aree interne, nelle aree metropolitane e in provincia, in montagna e in pianura, al Nord e al Sud. Una realtà che racconta come si sono riorganizzati i mondi della cultura dal basso negli ultimi dieci anni: i centri culturali indipendenti fanno parte del panorama culturale italiano almeno dal secondo dopoguerra, ma c’è stato un cambiamento. Fino agli anni Novanta le modalità di produzione e distribuzione della cultura erano standardizzate, avevano a che fare con i partiti o le industrie culturali, quindi hanno visto un fenomeno rilevante nello sviluppo dei centri sociali, anche occupati, ma dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 il contesto di riferimento è cambiato. Le carriere tradizionali all’interno del mondo della cultura si sono contratte (ci sono sempre meno soldi per università, editoria, cinema, musica) e sono emersi processi sociali e di sviluppo economico di comunità, che hanno fatto sì che sui territori emergessero esperienze locali molto diverse tra di loro ma che hanno punti in comune.

Il primo è che ci troviamo di fronte a spazi multifunzionali che progettano, realizzano, producono e distribuiscono cultura. Il secondo è che queste realtà si basano su modelli di sostenibilità ibridi: in alcuni casi hanno piccole sovvenzioni di pubbliche amministrazioni o fondazioni, ma ci sono anche la somministrazione di bevande, la cucina, la progettazione o la scrittura di bandi europei. Alcuni cambiamenti sono impressionanti: chi oggi ha 25 anni dà per scontato che librerie e cinema ospitino spazi per dibattiti o concerti, per mangiare o per bere, ma solo 15 anni fa questo esisteva (forse) solo nei centri sociali. In un nuovo centro culturale c’è spazio per l’arte contemporanea e le esibizioni ma anche per coworking, gruppi d’acquisto solidali, spazi di consulenza.

In che modo queste realtà rappresentano una risposta di fronte alle condizioni del lavoro nel settore?
BN In molti casi, si tratta di modalità di auto-impiego, visto che le finestre dentro i percorsi tradizionali si sono ristrette. Parlo di imprenditività di base, che in alcuni casi ha vocazione esplicitamente comunitaria in altre assume la forma di piccole imprese o di associazioni di professionisti o ricercatori. Se uno pensa a come si sono sviluppati alcune realtà, come Kilowatt a Bologna o Cre.zi a Palermo, sono un mix di impresa sociale, investimenti privati e intermediazione pubblica. In altre situazioni, penso alle Case del Quartiere a Torino, rappresentano una risposta della pubblica amministrazione e delle fondazioni alle domande del terzo settore. Se si guarda invece al Rifugio Paraloup, è completamente un’altra cosa: un borgo semi abbandonato (quella del gruppo di partigiani guidati da Nuto Revelli, in Valle Stura, ndr) che cerca di innovarsi per ripopolare una realtà di montagna con una logica nuova. Tutto questo è difficile da spiegare secondo i canoni dell’analisi tradizionale. Il motivo per cui gli spazi sono interessanti è che sono generativi, mettono a sistema delle forme di valore, in parte anche economico, elementi che circolano sul territorio. La realtà è che ci finisci intorno perché un nuovo centro culturale è un posto dove succedono delle cose. Questo elemento è il più interessante: progressivamente, i posti che funzionano attraggono sempre più persone e progettualità.

Bertram Niessen, tra i fondatori di cheFare, oggi ne è direttore scientifico e responsabile ricerca e sviluppo

Perché era tempo di scattarne una fotografia?
BN Sappiamo che i nuovi centri culturali sono migliaia, frequentati da centinaia di migliaia di persone, ma non vengono ancora riconosciuti come un’infrastruttura civile e culturale: non è solo una difficoltà di tipo statistico-amministrativa, dipende dall’atteggiamento dei mondi della cultura ufficiale che tratta questa novità dall’alto in basso. Eppure sono spazi che già sono o hanno la potenzialità di diventare punte di diamante sul territorio. Abbiamo l’obiettivo di spiegare alla cultura ufficiale che questa non è cultura di serie B, come abbiamo raccontato anche nel libro “Bagliore”, edito dal Saggiatore. Questa foto, inoltre, serve ai nuovi centri culturali per riconoscersi, perché è un mondo in movimento. La fotografia, infatti, è difficile.

A cosa servono i dati raccolti con laCall to Action?
BN Abbiamo raccolto informazioni e dati ben strutturati e stiamo lavorando con alcune università per costruire sapere accademico e scientifico sui nuovi centri culturali, con l’obiettivo di arrivare a incidere sulle politiche pubbliche: lo stiamo facendo con alcuni amministratori, in alcuni casi di larghe vedute, e lavorando con i soggetti che sono sul campo. laCall è nata nell’ambito de laGuida, un progetto di cheFare sui nuovi centri culturali come presidi civici e spazi di cittadinanza attiva: è stato sostenuto nella sua prima tappa da Fondazione Compagnia di San Paolo che, traendo spunto dall’Agenda 2030, pensa ai nuovi centri culturali e ai presidi civici come spazi non solo di cultura ma anche di cittadinanza attiva, e nella sua seconda tappa da Fondazione Cariplo, impegnata nel sostegno e nella promozione di progetti di utilità sociale legati al settore dell’arte e della cultura, dell’ambiente, dei servizi alla persona e delle ricerca scientifica. laGuida ha il supporto di Fondazione Unipolis. Tra i partner di rete di cheFare in questo lavoro figurano l’Arci, che si sta ripensando su alcuni territori, il mondo dei teatri, Lo Stato dei Luoghi (la rete che si occupa di rigenerazione urbana), Legambiente (che vede i centri di riciclo come potenziali nuovi centri culturali) e Labsus (che lavora sui patti per i beni comuni, strumenti utili e interessanti in determinati contesti).

Avete elaborato 11 raccomandazioni per politiche specifiche relative ai nuovi centri culturali. A che esigenza rispondono?
BN Sicuramente al bisogno di renderli riconoscibili, sia a livello culturale sia sui piani legale e burocratico. Poi per aiutare a immaginare politiche pubbliche, come incentivi fiscali o sostegni ad hoc, che aiutino questi luoghi a sopravvivere, in particolare di fronte all’emergenza Covid-19: se ci diciamo che il valore che questi spazi costruiscono sul territorio è a beneficio di tutti, anche gli oneri dovrebbero in parte coinvolgere il pubblico. Crediamo inoltre sia importante aiutare le reti di secondo livello e lavorare per la formazione della pubblica amministrazione, per fare “propaganda del gesto” di fronte all’esigenza di soluzioni amministrative capaci di semplificare (penso al caso di Milano, dove oggi esiste uno Sportello unico eventi) e di far collaborare gli assessorati a cui queste attività ibride si rivolgono.

Infine, per favorire un riconoscimento che possa stimolare dal punto di vista culturale ed economico la circuitazione delle opere, delle mostre, delle performance, favorendo anche una cooperazione che avvenga in modo sistemico e non episodico tra nuovi centri culturali e spazi della cultura istituzionali.

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.