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Beni confiscati: occorrono più risorse e trasparenza

A 39 anni dall’omicidio di Pio La Torre, la sottrazione dei beni ai boss si conferma l’arma più efficace. Bisogna investire di più per la loro gestione. La rubrica di Pierpaolo Romani (Avviso Pubblico)

Tratto da Altreconomia 236 — Aprile 2021
© Flickr

È meglio impoverire un mafioso che incarcerarlo. Per molti, questa affermazione potrà sembrare un’eresia. Al contrario, chi conosce il fenomeno mafia sa perfettamente che il potere di intimidazione e condizionamento dei boss non deriva esclusivamente dall’esercizio della violenza, ma si fonda anche sulla “roba” ovvero sulla quantità di beni e di denaro di cui essi dispongono. Per questo sottrarre ai mafiosi i patrimoni illecitamente accumulati è come togliere a un re lo scettro, per utilizzare un’espressione della Commissione parlamentare antimafia. Nel mondo mafioso si conta per quello che si ha e si è considerati in base a quanto si dispone. Innanzitutto in termini materiali ed economici. Per cui, se il poter essere incarcerati è un’ipotesi certamente possibile e messa in conto, l’essere privato dei beni è intollerabile per un mafioso. “Cosa peggiore della confisca non ci può essere”, ha affermato un boss durante un colloquio in carcere con i suoi parenti.

Fu Pio La Torre, sindacalista e politico siciliano, ad avere la grande intuizione di pensare che si dovesse varare una legge che prevedesse la confisca dei beni e delle aziende in odore di mafia. La Torre, insieme al suo collaboratore Rosario Di Salvo, verrà assassinato a Palermo il 30 aprile 1982 ma il suo barbaro assassinio non sarà invano. Dopo la sua morte e quella del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, il Parlamento approverà la legge 646 che introduce nel codice penale italiano il reato di “associazione a delinquere di tipo mafioso”, il famoso articolo 416-bis. Passeranno altri 14 anni e nel 1996, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme promossa da Libera porterà all’approvazione della legge n. 109 che prevede la possibilità di utilizzare i beni confiscati a mafiosi e ai corrotti per finalità di carattere sociale e istituzionale.

1.000: sono più di 1.000 i Comuni cui sono stati destinati i beni immobili confiscati in tutta Italia. Di questi, solo il 38% ha reso pubbliche le confische presenti sul loro territorio

In occasione del venticinquennale di questa legge, che interessa anche le aziende confiscate, Libera ha pubblicato un report particolarmente interessante, intitolato “RimanDati”, curato insieme al Gruppo Abele e all’Università di Torino. Lo studio, che possiamo definire un monitoraggio civico, si è prefissato l’obiettivo di verificare qual è lo stato della trasparenza dei beni confiscati nelle amministrazioni locali. Alcuni dati balzano subito agli occhi. Il primo: più di 1.000 sono i Comuni a cui sono stati destinati i beni immobili confiscati in tutta Italia. In pratica, non vi è Regione nel nostro Paese dove non vi sia stata una confisca accertata in via definitiva.

Il secondo: sul campione di 1.076 Comuni, tenuto conto del ranking appositamente costruito -su scala da 0 a 100, laddove 0 è riferibile a situazioni di totale assenza di dati pubblicati, 100 a situazioni inverse di presenza corretta di tutti i dati- solo il 38% dei Comuni ha reso pubblico l’elenco delle confische presenti sul proprio territorio, come prevede obbligatoriamente l’articolo 48 del Codice antimafia. Scrive Libera: “Anche laddove i dati sui beni confiscati sono stati in qualche modo resi pubblici, ciò è accaduto con estrema difficoltà, enormi ritardi e con modalità mai davvero pienamente conformi al dettato della legge”.

Una delle ragioni di questa situazione è da imputare al fatto che non in tutti gli enti locali, soprattutto in quelli di piccole-medie dimensioni, vi sono risorse umane e finanziarie adeguate per gestire un bene confiscato. Questo non può essere o diventare un alibi ma, al contrario, deve stimolare la politica a investire maggiormente nella formazione di professionalità e competenze da spendere per utilizzare rapidamente e al meglio i beni e le aziende confiscate. Perché anche in questa partita si può giocare una fase determinante della ripartenza del nostro Paese, in termini di coesione sociale, rapporti pubblico-privato, rigenerazione dei territori.

Pierpaolo Romani è coordinatore nazionale di “Avviso pubblico, enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie

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