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Interni

Banche italiane al capolinea

Il modello “supermercato di prodotti finanziari” non funziona più. E chi pensa di ristrutturare spremendo i correntisti andrà poco lontano

Tratto da Altreconomia 142 — Ottobre 2012

Sottocapitalizzate. Burocratizzate. Contigue al sistema politico. Soffocate da derivati e investimenti sbagliati. Provinciali. Care. Dipendenti dallo Stato e dalla Bce. Ciascuno dice la sua sulle banche italiane.
“È un sistema malato” è la definizione di Alessandro Penati, ordinario di Corporate finance e Finanza aziendale presso la facoltà di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative all’Università Cattolica di Milano, editorialista per le pagine economiche del quotidiano “la Repubblica” e di solito restio a concedere interviste. “Malato per varie ragioni. Il sistema bancario ricorda le acciaierie degli anni 70: grandi impianti, reti inefficienti e costose. Secondo, la crisi dell’euro riguarda anche le banche italiane, le quali devono fare i conti con un ‘rischio Italia’ che impone loro un costo sulla raccolta di capitali superiore al rendimento dei prestiti che fanno. E proprio questa correlazione tra crisi del debito e crisi delle banche -anche se a livello europeo si si tenterà di separarle, con la creazione di bad bank- fa sì che la liquidità degli istituti italiani sia pressoché azzerata. Oggi l’unico datore di fondi è rimasta la Banca centrale europea.
In più c’è un problema specifico delle banche nostrane: hanno enormi sofferenze, che derivano dalle difficoltà che incontrano le imprese medio-piccole, storicamente la tipologia principale di cliente. Le sofferenze si accumulano e seguono la crisi, non la precedono.
Se poi guardiamo alla struttura dei costi, va registrato ad esempio che le banche italiane non hanno colto la rivoluzione informatica. Molte hanno una rete di sportelli tale che francamente non sanno più che farsene. E fino a tre o 4 anni fa gli istituti facevano a gara ad aprire sportelli: oggi non possono far altro che chiuderli. La loro è una struttura commerciale costruita con lo specchietto retrovisore”.

Quali saranno le conseguenze di questa situazione?
Il progresso tecnologico è molto rapido, le aziende si devono adattare. Le banche hanno reagito con tempi troppo lenti, usano internet solo marginalmente. Per questo motivo, l’aggiustamento sarà costoso e non indolore. Per gli azionisti, e per i dipendenti: sarà difficile convertire impiegati generici di banca in venditori o informatici. Sono persone che definirei middle class, e il loro mondo subirà una rifondazione simile a quella, appunto, delle acciaierie o della telefonia.
Questo nonostante il mestiere della banca sia molto cambiato in questi anni. Finora la strategia bancaria è stata quello di trasformare le filiali in supermercati. Le banche “vendono”, e per questo investono in pubblicità, come fossero produttori di dentifricio. E, come i produttori di dentifricio, fanno tanti prodotti tutti sostanzialmente uguali.
Le banche si sono trasformate in supermercati di prodotti finanziari, perché era facile da fare e perché potevano contare su un tasso di rotazione del cliente basso, sulla sua fidelizzazione. Nel farlo si sono snaturate: hanno perso la capacità di fare prestiti, di gestire rischi e di aiutare le imprese. E hanno fatto operazioni con una leva finanziaria molto alta.
Ecco però che si sono rivelate un supermercato inefficiente. Perché la distribuzione dovrebbe avvenire diversamente. Ragionando con un’altra analogia, mi chiedo quale settore della distribuzione funzioni attraverso uno sportello che attende il cliente. Il problema è che i prodotti bancari sono tutti uguali, ma gli istituti non fanno competizione sui costi.

Anche per questo la maggior parte delle banche italiane ha avviato piani di ristrutturazione.
Guardiamoci dentro, a questi piani. Molti, come nel caso di Monte dei Paschi di Siena (Mps), chiamano ristrutturazione l’idea di puntare su servizi e commissioni verso il cliente, e raddoppiare i numeri raggiunti oggi. Pensano a prodotti più complicati e con margini più elevati, e in questo ambiscono a risultati incredibili. Tuttavia, tutti i piani di ristrutturazione dei vari istituti prevedono un incremento di raccolta di commissioni per ciascun dipendente, al quale verrà chiesto uno sforzo eccezionale.
Ma se tutte le banche puntano all’aumento dei servizi venduti ai clienti, vuol dire credere che gli italiani si rivolgeranno in massa a servizi finanziari. E ciò mi pare impossibile.
La realtà è che i tempi di aggiustamento del sistema sono lenti, e questo a mio avviso lascerà qualche ‘cadavere’ per strada.
Mps, ad esempio, è sostanzialmente insolvente. Ma molte altre banche sono in situazioni abbastanza simili, e si salvano grazie ad azionisti compiacenti che assorbono le perdite. Ma su questo Alessandro Profumo, presidente di Mps, ha ragione: il problema non è la sottocapitalizzazione. La verità è che le banche non stanno in piedi dal punto di vista operativo. Perché il costo di raccolta è elevato e i risultati non ci sono.
Poi di certo c’è un problema di management: sempre quello, le solite persone. Non so valutare le “seconde linee”, ma so che ci vorrebbe anche un cambiamento culturale e una formazione diversa.

Non basta l’aiuto della Banca centrale europea.
Per un’impresa cui l’input -ovvero la raccolta- costa molto, l’unica soluzione è confidare nell’aiuto della Bce, e ad essa dare in garanzia i propri “gioielli”. Devono ridurre il rischio, viste le sofferenze, la marea di partite incagliate, e la mancanza di utili. L’unica cosa che pensano è spremere dal risparmiatore margini più elevati. Perché senza redditività non ha senso aumentare il capitale. E senza liquidità non può esserci redditività.

I bilanci possono aiutare a comprendere lo stato di salute del sistema?
I bilanci bancari hanno trasparenza pari a zero sugli attivi. Una delle lezioni della vicenda Unipol-Fonsai è che, per una volta, è stata fatta chiarezza su un aspetto: ogni valutazione sugli attivi di una società è tutt’altro che sicura. Un vero spaccato. Se facessimo la stessa operazione chiarezza sui bilanci delle banche, salterebbe fuori di tutto.
Abbiamo assistito a casi di istituti che finanziavano molte strane operazioni. Una cosa analoga riguarda molti fondi immobiliari, verso i quali convergono i soldi delle casse previdenziali. In tutti i casi, sotto c’è molto debito -l’esposizione complessiva del settore edilizio nessuno lo sa- e una marea di derivati.
Il meccanismo denominato Basilea 3 ha fatto ancora più confusione, di fatto, affidando a modelli interni agli istituti la valutazione del rischio presente nei propri bilanci. Ciascuno ha il suo, validato dalla banca centrale. Titoli di Stato e mutui sono considerati a rischio zero.
Peccato che nel frattempo sia arrivata la recessione: secondo un’analisi della Banca d’Italia, anche se in media il debito sullo stock immobiliare è basso, esso non ha margine, anche perché chi ha comprato negli ultimi anni deve ancora il 60/70% del totale. Sicuri che tutti saranno in grado di pagare le rate?
Anche chi magari non ha beneficiato dell’Euribor favorevole? Anche le persone hanno i propri vincoli di bilancio. Ancora una volta Mps insegna qualcosa: tutte le sue sofferenze sono mutui. Un fatto scioccante per il sistema italiano: è la prima volta che sofferenze sui mutui minacciano la tenuta di una banca.

Qual è il ruolo delle fondazioni bancarie?
Facendo una battuta, mi vien da dire che si sono sparate sui piedi. Una fondazione ha potere e rilievo quando ha patrimonio liquido che cresce nel tempo: l’unico modo per farlo è separarsi dalla banca da cui nasce e diversificare.
Tutte le fondazioni che hanno privilegiato, mantenuto e concentrato il proprio patrimonio in una banca e nelle sue attività limitrofe pagano un errore di gestione. Molte fondazioni oggi sono in situazione pessima. D’altra parte, se voglio avere un patrimonio che cresce e lo investo tutto in un settore, mi prendo il rischio di scoprire poi che non è proprio una miniera d’oro. La prima crisi bancaria, nel 1996, spazzò via tutte le fondazioni delle banche del Sud. Questa crisi spazzerà molte fondazioni al Nord. —
 

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