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Economia / Opinioni

Ecco perché è rischioso piegare la Banca d’Italia alle logiche sovraniste

Mettere mano alle riserve auree, cancellare parti di debito pubblico, nominare uomini di fiducia dell’esecutivo nelle posizioni apicali rappresenterebbe un colpo mortale non solo a Bankitalia ma alla credibilità del nostro Paese. L’analisi di Alessandro Volpi

Palazzo Koch, sede della Banca d'Italia © Banca d'Italia

Il tema dell’indipendenza della Banca d’Italia risulta assolutamente centrale in relazione alla tenuta della credibilità del nostro Paese e, peraltro, richiama alla memoria varie stagioni del passato. Per capirne la rilevanza è necessario aver chiare le attuali funzioni dell’istituto centrale italiano, dopo la nascita della Banca centrale europea (Bce). Bankitalia ha compiti di vigilanza nei confronti del sistema bancario italiano, condivisi però con altri organi, e ha un ruolo importante nella elaborazione di studi, stime e ricerche sull’andamento economico. Acquista, in maniera sempre più significativa, titoli del debito pubblico italiano, tanto che dal 2015 ne ha comprati su mandato della Bce per un valore di circa 365 miliardi, ed è proprietaria di riserve auree per quasi 85 miliardi di euro (quarta al mondo dopo Federal Reserve degli Stati Uniti, Bundesbank e Fondo monetario internazionale). Registra, inoltre, attivi di poco inferiori ai 1.000 miliardi di euro, in cui sono comprese oltre alle voci già ricordate anche 40 miliardi in valuta estera, e ogni anno versa al Tesoro 4,9 miliardi di euro fra quote e imposte.

Si tratta dunque di un istituto ancora fondamentale per la vita economica e politica italiana. Le sue stime infatti hanno un peso non trascurabile nella formazione di un giudizio nella platea degli operatori  mentre i titoli del debito in suo possesso potrebbero essere oggetto di operazioni finalizzate ad alleggerire il debito stesso, come è accaduto con la singolare proposta, avanzata nella primavera scorsa, di “cancellare” 250 miliardi di titoli acquistati con la liquidità facile della Bce.

Sulla rilevanza del potere di controllo è persino superfluo insistere. Le riserve invece sembrano essere diventate l’obiettivo a cui almeno una parte del governo guarda ora per finanziare la legge di bilancio in caso di difficoltà nel collocamento dei titoli del nostro debito e soprattutto per evitare che il prossimo anno scatti il pesante aumento dell’Iva in assenza di altre coperture da inserire nella manovra del 2020. In tale ottica le riserve auree, e forse non solo quelle, verrebbero trasferite in proprietà allo Stato e lasciate alla Banca d’Italia solo in gestione, in modo da offrire al debito statale maggiori garanzie, puntando al tempo stesso a incassare le plusvalenze rese possibili da una rivalutazione, a prezzi correnti, delle stesse riserve.

In estrema sintesi si procederebbe a una nazionalizzazione forzata dell’istituto centrale, che verrebbe inserito fra gli strumenti necessari per finanziare manovre in evidente deficit e con un debito in crescita, reso più pesante dalla sempre più probabile recessione. Dopo l’utilizzo a piene mani della Cassa depositi e prestiti per rendere possibili operazioni di mascheramento del debito e di repentine privatizzazioni, per cui la stessa Cassa (pubblica al 70%) compra beni pubblici senza gravare sul debito perché fuori dal perimetro dei soggetti sottoposti ai vincoli europei, ora toccherebbe alla Banca d’Italia ad essere sottoposta alle logiche sovraniste.

Se non è più praticabile l’abbandono dell’euro e il ripristino della piena sovranità monetaria nazionale, la nuova strategia parrebbe essere quella di dissanguare l’istituto di via Nazionale, e di aggiungerlo a Cassa depositi e prestiti nell’opera di copertura artificiale del debito in costante esplosione. Per fare tutto ciò, occorre in primo luogo eliminarne l’indipendenza, “liberandola” dai tecnici e riportandola sotto la stretta influenza della politica, impegnata in una certosina selezione delle nomine in base alla fedeltà all’interesse del “popolo sovrano”.

Bisogna, così, rimettere le lancette della storia al 1936, quando il governatore della Banca centrale veniva nominato dal governo, e ripercorrere le tappe che hanno visto la Banca d’Italia subire sconcertanti sarabande di cui hanno fatto le spese tutti coloro che hanno provato ad opporsi allo strapotere della politica; basterebbe ricordare la drammatica vicenda del governatore Paolo Baffi e del direttore Mario Sarcinelli, travolti per aver difeso la Banca dagli assalti di Sindona e compagni. La storia dovrebbe averci insegnato che la presenza della politica nella banca centrale non ha dato grandi prove. Se la storia non bastasse poi ad indurci alla difesa dell’indipendenza di Bankitalia, dovremmo tener presente gli effetti immediati, e devastanti, di una sua sottomissione alla politica. Mettere mano alle riserve auree, cancellare parti di debito, nominare uomini di fiducia dell’esecutivo nelle posizioni apicali rappresenterebbe un colpo mortale non a Bankitalia ma alla credibilità del nostro Paese e del suo debito, il cui collocamento diverrebbe così costoso da bruciare le riserve auree messe in gioco. Certo, dopo la riforma bancaria del 1993, il crescente peso acquisito dai grandi istituti di credito all’interno dell’assemblea degli azionisti di Bankitalia ha reso molto più difficile difendere un’indipendenza indebolita proprio da questa parziale “privatizzazione” e ha allentato l’azione di controllo verso i suoi “proprietari”. Questa trasformazione non può essere, tuttavia, la ragione a cui appellarsi per andare all’arrembaggio di un’istituzione che ha contribuito e contribuisce alla tenuta del Paese proprio perché parte integrante dell’indispensabile equilibrio fra i poteri su cui si fonda la democrazia, non riducibile alla sola dimensione elettiva, e elettorale.

Università di Pisa

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