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Autostrade: non c’è solo il “dossier Benetton”, è tempo di ripubblicizzare l’intera rete

© Kimi Lee - Unsplash

Dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova nell’agosto 2018, in Italia avrebbe dovuto aprirsi un dibattito sulle autostrade, sul fallimento della privatizzazione della rete, sugli utili accumulati dai concessionari. Da oltre due anni, invece, si parla invece “solo” di Autostrade per l’Italia. L’analisi di Luca Martinelli

Dopo il crollo del Ponte Morandi, cioè del tratto finale dell’autostrada A10 a Genova, in Italia avrebbe dovuto aprirsi un dibattito sulle autostrade. Da oltre due anni, da quel giorno d’agosto del 2018, si parla invece solo di Autostrade per l’Italia (ASPI). È vero che la concessionaria controllata (con l’88,06% del capitale) da Atlantia, società che fa parte della galassia Benetton (la famiglia ne possiede oggi il 30,25%, attraverso la holding Sintonia) è il primo gestore della rete in Italia, dove incassa pedaggi su ben 3.020 chilometri, ma il problema non riguarda solo ASPI. E quindi la soluzione non è “un accordo per allontanare i Benetton dalla gestione di Autostrade”, come ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in occasione del secondo anniversario del crollo. Basterebbe leggere le cronache degli ultimi mesi per rendersi conto che le difficoltà investono anche il resto della rete, la cui lunghezza complessiva è di 5.886,6 chilometri, secondo i dati del ministero delle Infrastrutture aggiornati al gennaio 2020).

C’è una questione di sistema: in Abruzzo a fine ottobre 2020 sono stati rinviati a giudizio l’imprenditore Carlo Toto e altri dirigenti della società Strade dei Parchi, concessionaria delle autostrade A24 e A25, nell’ambito di un’inchiesta sullo stato strutturale dei viadotti ricadenti nel territorio aquilano; a metà novembre, invece, l’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, era stato arrestato, insieme ad alcuni manager della società, nell’ambito di un’inchiesta sulle manutenzioni, collaterale a quella principale sul crollo del Ponte Morandi, che causò 43 morti; ad Avellino è intanto in corso il processo d’appello dopo la condanna in prima grado di alcuni dirigenti di Autostrade per l’Italia per la “Strage di Acqualonga”, che vide un autobus volare da un viadotto dell’autostrada A16 (la Napoli-Bari): nel luglio 2013 morirono 40 persone.

Ecco perché la telenovela tra governo Conte II, Autostrade per l’Italia e Cassa depositi e prestiti (vedi l’inchiesta di copertina su Ae 231), che va avanti dall’estate e che si arricchisce di presunti colpi di scena (le bizze di Di Maio durante gli Stati generali del M5S o il cambio di cavallo ai vertici della holding dei Benetton) non fa altro che distogliere lo sguardo dalla luna: è la privatizzazione della rete autostradale a non aver funzionato, almeno se la si guarda alla luce dell’interesse collettivo.
Alcuni numeri: tra il 2009 e il 2018 l’aumento del traffico sull’intera rete autostradale è stato pari all’1,3%, ma a questo è corrisposto un aumento dei ricavi da pedaggi del 27,8 per cento. In termini assoluti si è passati da 4,75 a 6,07 miliardi di euro. Nello stesso periodo, i concessionari hanno cumulato utili per 11,65 miliardi di euro.

La fonte di entrambi i dati è l’ultima relazione sulle attività svolte dalla Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali che riferita all’anno 2018, quello del crollo del Ponte Morandi, è stata pubblicata solo a gennaio 2020, con leggero ritardo rispetto agli anni precedenti.Un altro dato che è possibile estrapolare dalla relazione è ancora più efficace a spiegare lo stato di salute del settore, e ne evidenzia il netto miglioramento: è il margine operativo lordo, cioè il rapporto tra risultato operativo e ricavi. Se il risultato di questo rapporto è alto significa che il costo delle attività quotidiane, della gestione ordinaria d’impresa, è basso in relazione alle vendite.
Per far crescere questo margine, a parità di fatturato, è necessario cioè intervenire per ridurre i costi operativi: per migliorare il rapporto è necessario ridurre i costi di produzione o quelli amministrativi o quelli del personale. L’alternativa è fare in modo che i ricavi crescano molto più dei costi.
Nel caso del settore autostradale il margine medio nell’ultimo triennio 2016-2017-2018 è pari al 57%. Nel decennio 2009-2018, mentre i ricavi crescevano di quasi il 30% i costi per il personale aumentavano solo del 13,8% (il numero di dipendenti in discesa di circa 1.200 unità, da 13.968 a 12.782) mentre i costi delle manutenzioni ordinarie sono rimasti costanti, passando da 720 a 727 milioni di euro (la media sui dieci anni è invece di 692 milioni di euro).

Anche Autostrade per l’Italia ha visto negli ultimi anni il proprio margine operativo lordo crescere, fino a superare nel 2017 e nel 2018 il 50 per cento dei ricavi. È poi crollato nel 2019 per effetto del contenzioso avviato con il ministero delle Infrastrutture dopo il crollo del Ponte Morandi. Per fare un esempio, guardando alle maggiori imprese della Borsa Italiana, Enel ha chiuso il 2020 con un margine operativo lordo del 22%, mentre quello di Eni è vicino al 24%.
Per tutto questo è tempo che lo Stato decida di affrontare sul serio la questione posta dal crollo del Ponte Morandi, ripubblicizzando l’intera rete autostradale, affidando la gestione di questo monopolio naturale a soggetti pubblici e strutturando un sistema tariffario che permetta di coprire i costi di manutenzione ordinaria e straordinaria senza far utili, senza cercare per forza il profitto.

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