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La pericolosa ricerca del voto perduto, tra rabbia e indifferenza

Conquistare gli astenuti è il mantra della politica italiana. Che però non lo fa su basi valoriali ma puramente sentimentali, inseguendo pulsioni primordiali. Risultato: si accetta la rabbia antidemocratica trovandole una giustificazione che la renda legittima. Il commento di Alessandro Volpi

Nel recente panorama politico italiano sta prendendo corpo una nuova pratica che pare molto diffusa. Si tratta del tentativo, ad opera di più parti politiche, di dedicare il massimo impegno nella riconquista di militanti “arruolati” nel partito del non voto che rappresenta ormai saldamente il primo partito italiano con una percentuale intorno al 40%. Sono sempre più numerose le dichiarazioni di esponenti politici che si rivolgono agli astenuti, scegliendo come linguaggio prevalente quello dei sentimenti e delle passioni.

Il tentativo di “cattura” dei non votanti non avviene infatti sulla base di richiami ideologici o di riferimenti all’appartenenza sociale, ma puntando a occupare gli spazi politici delle diverse declinazioni del sentire individuale. Finite le classi, affievolitisi i ceti e indeboliti persino i gruppi, i tanti individui socializzati singolarmente nella rete e aggregati spesso in comitati e civismi molto specifici sono diventati gli abitatori di aree di appartenenza, ora fuori dalla politica, non qualificabili utilizzando categorie ideali e definibili invece per aree “sentimentali”. Esistono così gli impauriti, i delusi, gli arrabbiati, gli invidiosi, gli ambiziosi, a cui le formazioni politiche si rivolgono muovendo proprio, quasi esclusivamente, da questi caratteri rispetto ai quali i contenuti della rabbia, della delusione, dell’invidia, dell’ambizione paiono avere poca importanza. Si tende a considerare, in altre parole, il non voto come un fenomeno tanto passionale quanto indefinito da riportare in gioco abbandonando ogni tradizione pedagogica della politica e ogni faticosa costruzione programmatica. Appare più facile infatti sollecitare proprio quelle pulsioni che hanno motivato l’astensione; bisogna dimostrare che si vota e non ci si astiene per paura, che si vota e non ci si astiene per rabbia, che si vota e non ci si astiene per invidia. In maniera molto paradossale, tende ad affermarsi l’idea che si possa accrescere la partecipazione politica alimentando e rafforzando i sentimenti dell’astensione.

Lungo questo percorso emergono due ulteriori aspetti importanti del dibattito politico. In primo luogo se l’obiettivo è quello di parlare ai sentimenti, non affidandosi ad altri elementi di natura valoriale o programmatica, allora diventa decisiva la riconoscibilità della proposta “sentimentale”; per essere incisivi in termini elettorali occorre essere sempre più riconoscibili rispetto ai competitori che, cadute le distanze ideologiche e programmatiche, sono soprattutto le formazioni politiche più vicine. Il vero avversario non è chi si colloca in uno schieramento ideologico differente perché non è l’ideologia, come detto, a fare la differenza, ma quello più vicino perché è quello che esercita la concorrenza proprio in termini sentimentali; per interpretare la rabbia e la paura di coloro che non votano e che appartenevano ad una ormai flebile idea di destra o di sinistra, bisogna essere il più chiaramente arrabbiato o il più bravo nel coltivare la paura, distinguendosi dalla formazione almeno apparentemente più omogenea. Il secondo aspetto è costituito dallo sforzo di legittimazione dei sentimenti che si concretizza nell’allargamento del campo politico fino a comprendervi atteggiamenti e idee al limite delle regole democratiche o addirittura al di fuori di esse. I non votanti, in tale ottica, devono essere resi soggetti politicamente legittimi accettando le motivazioni del loro non voto che spesso non rispondono ai tratti della democrazia. Rinunciare alla conquista del voto su basi valoriali per inseguire le pulsioni può portare con sé una conseguente, pericolosa dilatazione della geografia delle passioni politiche, in una logica di occupazione degli spazi mediante la costruzione di formule politiche a posteriori; si accetta così la rabbia antidemocratica trovandole una giustificazione che la renda legittima. La ricerca del voto perduto contiene in un simile scenario troppe insidie. Come accennato, i non votanti hanno assunto i caratteri del partito con un “programma” fondato in larga misura su istinti primordiali assai più forti della consueta indifferenza. La grande distanza rispetto al passato, infatti, è proprio questa; l’astensione è diventata enorme e non si regge più sul disinteresse verso la politica ma ha radici ben piantate nel ripudio della politica stessa.

La politica dunque per riconquistare i non votanti deve rinnegare i propri fondamenti e, nel fare questo, rischia di smarrire anche la propria parte migliore rappresentata dalla vocazione democratica.

Università di Pisa

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