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Diritti / Attualità

Asilo in Europa: gli insospettabili alleati del Regolamento di Dublino

Il presidente ungherese Viktor Orbán e il ministro dell'Interno Matteo Salvini

Il meccanismo che dal 1990 carica sui Paesi di primo arrivo competenza e responsabilità sull’esame delle domande di protezione internazionale rischia di rimanere cristallizzato anche dopo il Consiglio europeo del prossimo 28 e 29 giugno. Per meri interessi elettorali. Intervista a Gianfranco Schiavone di ASGI

Nel 1990, quando è entrata in vigore la Convenzione di Dublino, le domande d’asilo presentate in Italia furono 4.573, quasi tutte dall’Europa. Africa e Asia non superarono quota 1.335. Nemmeno trent’anni dopo, nel 2017, il nostro Paese ne ha contate oltre 130mila. Il mondo è cambiato, ma non il sistema d’asilo e il criterio giuridico in base al quale tocca al Paese di “primo ingresso” la competenza sull’esame della domanda se l’ingresso dello straniero è avvenuto in modo “irregolare. Un paradigma che rischia di rimanere cristallizzato anche dopo il Consiglio europeo del prossimo 28 e 29 giugno. Per meri interessi elettorali.

Eppure quell’impalcatura, puntellata l’ultima volta nel 2013 con il Regolamento di Dublino III, sta conducendo l’Europa in un “vicolo cieco”. Le parole sono di Gianfranco Schiavone, studioso di migrazioni internazionali, vice presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) e presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste. Nelle conclusioni dell’ultimo report 2018 sul diritto d’asilo di Fondazione Migrantes (Editrice Tau), aveva indicato le possibili “vie d’uscita”. Una di queste era proprio la revisione di “Dublino III”, articolata in due parti. “L’applicazione di un principio generale di distribuzione delle presenze e dei relativi oneri sulla base di parametri equi e razionali”, e cioè un sistema di quote che superasse il Paese di primo ingresso. E il riconoscimento tra i criteri prioritari per l’individuazione del Paese competente dell’esistenza dei “significativi legami” (famigliari, parentali, soggiorni precedenti, formazione, lavoro, sponsorizzazione). Principi che Schiavone definisce “riformatori” e che il Parlamento europeo aveva fatto propri nel testo di riforma approvato il 16 novembre 2017.
Uno sprazzo di luce fiaccato dalla proposta (contraria) avanzata dalla presidenza bulgara del Consiglio europeo, respinta il 5 giugno scorso dai ministri dell’interno dell’Unione europea.

Schiavone, quale scenario si prefigura?
GS Le vie d’uscita dalla situazione di stallo in cui ci troviamo non aumentano, ma non a causa del voto del 5 giugno. Di per sé, quel voto chiarisce che non c’è il consenso su una proposta, quella della presidenza bulgara, che era sicuramente stata formulata con un testo durissimo, e non di compromesso, che era in netta opposizione rispetto alla proposta votata dal Parlamento europeo. La maggior parte dei giornali italiani ha messo l’accento sull’importanza di quella decisione che in realtà è del tutto relativa. È relativa perché il punto vero è qual è la proposta di possibile compromesso con il Parlamento. Se, come temo, dal Consiglio del 28 giugno si dovesse far strada l’idea che non c’è più nessun compromesso, a quel punto, poiché il potere legislativo nell’Unione europea è bicefalo (ovvero il voto sulla riforma deve vedere concordi sullo stesso testo il Parlamento e il Consiglio), vorrà dire che l’unico scenario possibile, che già molti annunciano, è nessuna riforma. Una paralisi, ovvero il vicolo cieco.

Che cosa comporterebbe la mancata riforma di Dublino III?
GS Nel caso della non riforma di Dublino III, questo comporta necessariamente la modifica dei testi attuali di riforma depositati riguardanti le procedure, le qualifiche e l’accoglienza. Fattori che si ristrutturano di conseguenza a seconda del destino della “chiave di volta” del sistema di asilo comune che è il regolamento DublinoSe fossimo andati verso un meccanismo di quote, è chiaro che alcune proposte, soprattutto sulle procedure, sarebbero cadute e altre sarebbero emerse. Ad esempio, non avrebbe avuto più senso affidare ai Paesi di primo ingresso un ruolo per così dire predominante di “scrematura” delle domande manifestamente infondate o delle domande di coloro che provengono da Paesi terzi considerati sicuri  (proposta assai pericolosa di cui qui non parliamo per brevità).

Quale sarà il ruolo del governo italiano? Che cosa si aspetta?
GS Non mi aspetto nulla di buono. Apparentemente -come nel caso di Dublino- il governo italiano dovrebbe coltivare la proposta del Parlamento europeo votata nel novembre 2017 e porsi da quel lato, non fosse altro per puro interesse nazionale. E invece c’è una evidente dicotomia, se non forse schizofrenia, tra ciò che dovrebbe essere fatto nell’interesse del Paese e ciò che invece sono le sirene ideologiche che avvicinano il ministro Salvini al presidente ungherese Viktor Orbán e al gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria). Questi Paesi però hanno interessi oggettivamente contrastanti con quelli italiani. E lo scenario di un ministro dell’Interno che non si capisce se insegue l’interesse nazionale o altri interessi politici, magari contrari a quelli della Repubblica, devo dire francamente che mi inquieta.

Il presidente dell'Ungheria, Viktor Orbán, e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker
Il presidente dell’Ungheria, Viktor Orbán, e il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker

Perché il blocco di Visegrad e l’Italia hanno interessi contrastanti?
GS Il gruppo di Visegrad è fortemente contrario alla benché minima possibilità di arrivare a una ripartizione per quote-Paese dei richiedenti asiloAddirittura è contrario anche all’ipotetica ripartizione proposta dalla Commissione europea, la quale prevedeva l’introduzione della procedura di ripartizione obbligatoria per quote ad altri Paesi solamente nel caso in cui quello di primo ingresso avesse superato la soglia del 150% in più delle domande d’asilo di cui dovrebbe farsi carico prendendo a riferimento, per effettuare il conteggio, il modello redistributivo calcolato sulla base del Pil e della popolazione, ritrovandosi così in una situazione di grande sovraccarico. Per quanto insoddisfacente fosse questa ipotesi, il gruppo di Visegrad l’ha comunque osteggiata. E non tanto per il rischio concreto di vedersi assegnare delle quote consistenti, quanto per ragioni squisitamente ideologiche -“Ogni Paese decide per sé”-, rifiutando il principio cardine dell’Unione europea per il quale le politiche di asilo si fondano sul principio di solidarietà e su quello dell’equa distribuzione delle responsabilità, anche finanziarie. Eppure il cosiddetto “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega sostiene invece che l’Italia è favorevole a un sistema di quote.

L’agire concreto è opposto. Perché?
GS Costringerebbe questi nuovi improvvisati alleati a concordare una strategia comune mentre probabilmente hanno interessi divergenti.

Se ci fosse un sistema di quote potrebbe sgonfiarsi la retorica dell’Italia lasciata sola dall’Unione europea. Una minaccia per le recenti fortune elettorali?
GS Esattamente. Guardiamo alla realtà: Orbán dovrebbe essere favorevolissimo alle quote perché il suo Paese, l’Ungheria, molto più dell’Italia, rischia di trovarsi per mere ragioni geografiche su vie di fuga per molti rifugiati, rischiando così di avere un numero spropositato di domande di protezione. Eppure, come l’Italia, non sostiene questo principio.

Qual è la spiegazione?
GS Gridare all’invasione e all’insostenibilità della situazione -tanto per Orbán quanto per Salvini- è il cavallo di battaglia vero. Orbán, come Salvini, non vogliono affatto cercare una soluzione ragionevole; al contrario la soluzione del problema costituisce il problema politico per loro. La loro strategia è creare disordine, aumentare il disagio sociale, fare leva sulle comprensibili paure delle persone comuni che percepiscono una situazione fuori controllo e infine porsi come (finti) risolutori delle problematiche che loro stessi hanno generato.

In più di un’occasione ha sottolineato come le scelte fatte nel 1990 si siano rivelate sbagliate.
GS Fu sicuramente commesso un errore, ma guardandolo rispetto agli errori clamorosi fatti nel 2013 e quelli persino maggiori che si stanno facendo oggi, quello del 1990 appare in realtà come un “piccolo peccato”. Dobbiamo sempre considerare che eravamo in un contesto storico e giuridico completamente diverso; eravamo ancora Comunità economica e non Unione europea, e gli Stati del Sud come l’Italia non avevano praticamente richiedenti asilo. Quella convenzione tra Stati puntava in qualche modo a “costringerci” ad avere una maggiore responsabilità. Ben più drammatico è stato invece l’aver consolidato nel tempo una impostazione che, con molti punti interrogativi, avrebbe potuto avere una sua modesta validità in un’ottica temporalmente breve ma che andava adeguata ai cambiamenti storici e giuridici. E soprattutto è stato un errore imperdonabile arrivare al 2013 con il Regolamento Dublino III confermando un modello logoro e iniquo. Nel 2013 eravamo già Unione europea, e avremmo dovuto emanare una norma conforme all‘articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Ue che prevede, come si è detto, che le norme comuni in materia di asilo rispettino i principi di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità.

Perché, come ha scritto anche nel report di Fondazione Migrantes, è in gioco il futuro dell’Unione europea?
GS La questione degli arrivi e dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Europa ha determinato le politiche di tutti i Paesi dell’Unione. È stato il fattore che ha cambiato il volto politico dell’Europa ed è evidente che se vogliamo uscire da questo progressivo scivolamento verso un continente chiuso e in mano alle forze xenofobe, dobbiamo immaginare una politica di asilo completamente diversa. Quello che poteva sembrare un tema importantissimo ma di nicchia -e cioè i diritti dei rifugiati, ovvero di una piccolissima parte della popolazione che vive in Europa- si è rivelato un nodo politico dirimente per l’identità e il futuro di tutti i cittadini europei. Nessuno oggi può essere così ingenuo da pensare che quando si costruisce una norma sui rifugiati si sta confezionando una norma magari importante sul piano etico e giuridico ma secondaria sul piano delle ricadute politiche. Ci stiamo invece occupando di qualcosa che ha a che fare con l’identità dell’Europa in forme e dimensioni che nessuno di noi avrebbe mai immaginato potere essere così dirompenti.

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