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Sport / Intervista

Stefano Ghisolfi. L’arrampicata vista dall’alto

20mila tesserati, 250 società e un’offerta crescente di strutture solo nel nostro Paese. Com’è cambiata quella che fu un’attività di nicchia. Intervista al giovane campione

Tratto da Altreconomia 197 — Ottobre 2017
Stefano Ghisolfi -classe 1993- ha vinto la medaglia di bronzo (categoria giovanile) al Campionato del mondo nel 2010 e nel 2011; nella categoria senior è salito cinque volte sul podio in singole tappe di Coppa del Mondo. Ha vinto il campionato italiano nel 2012, 2013, 2014 e 2015 e la Coppa Italia nel 2010, 2011, 2012, 2013, 2014 e 2017. In falesia, sulla roccia, ha salito più di dieci vie tra il 9a+ e il 9b

L’arrampicata, intesa come disciplina sportiva e non più come alpinismo, è nata nel 1985 con la prima competizione ufficiale a Bardonecchia e da allora si è sempre più strutturata: nel 1987 si è costituita la Fasi (Federazione arrampicata sportiva italiana, www.federclimb.it), nel 2007 la Ifsc (International federation of sport climbing, www.ifsc-climbing.org) e lo scorso anno l’arrampicata sportiva è stata ammessa alle Olimpiadi del 2020 di Tokyo, confermando il trend di crescita e di diffusione di questo sport che in Italia nel 2016 contava 20mila tesserati (il 25 per cento in più del 2010), 250 società sportive e un’offerta crescente di strutture. Negli ultimi dieci anni l’arrampicata sportiva è cambiata moltissimo: da attività di nicchia, praticata soprattutto sulla roccia e vissuta come “stile di vita” alternativo, è diventata uno sport a tutti gli effetti, praticato nelle palestre. Lo sa bene Stefano Ghisolfi, torinese, classe 1993, membro del gruppo sportivo delle Fiamme Oro di Moena, dal 2013 è stabilmente nei primi dieci classificati della Coppa del mondo “lead”, la specialità con la corda.

Stefano, riconosci un cambiamento nell’arrampicata? Di che tipo?
SG Riconosco per primo questo cambiamento, infatti ho iniziato ad arrampicare proprio con un corso in palestra a Torino e la roccia non l’ho toccata per parecchi anni. Questa crescita è dovuta all’apertura di molte sale indoor nelle città. Così lo sport che prima era per i pochi che già lo conoscevano è ora alla portata di tutti e comodo da praticare in qualsiasi giorno della settimana, magari in pausa pranzo o dopo il lavoro o la scuola. Andare in falesia richiede tempo che di solito veniva trovato nel week-end, con la crescita del numero di palestre la montagna si è spostata in città ed è a portata di tutti. Le nuove generazioni, da una decina di anni, conoscono l’arrampicata in palestra e si spostano outdoor solo successivamente, ma questo passo non è seguito da tutti. Molti praticano l’arrampicata in palestra come un’attività di fitness oppure iniziano a gareggiare senza andare mai in falesia.

La diffusione dell’arrampicata sta avendo ripercussioni sulla natura di questa disciplina, così com’era intesa dai pionieri dell’arrampicata moderna degli anni 80?
SG L’arrampicata si sta trasformando sempre di più in sport a tutti gli effetti, la natura avventurosa viene sostituita da maggiore sicurezza e ricerca di difficoltà più elevate. Ed è una cosa positiva, o comunque è la strada che ho scelto di percorrere ed è quello che i pionieri degli anni ‘80 hanno cominciato a infondere in questo sport, differenziandosi dall’alpinismo.

“Aumentando il bacino di utenza aumenta anche il rischio di trovare persone irrispettose per natura e roccia. Penso che ci siano più persone in grado di dare il buon esempio piuttosto che il contrario”

Il rapporto con la natura, la roccia, l’ambiente esterno continua ad essere rispettoso e di tutela oppure subirà le conseguenze -non sempre positive- della “massificazione”?
SG Aumentando il bacino di utenza dello sport aumenta ovviamente anche il rischio di trovare persone irrispettose per natura e roccia, ma dalle esperienze che ho vissuto io penso ci siano più persone in grado di dare il buon esempio piuttosto che il contrario.

La maggiore visibilità e le maggiori risorse economiche di cui sta godendo l’arrampicata che riflessi hanno su una pratica che da sempre considera se stessa “povera”?
SG Il bello di questo sport è anche il fatto che bisogna spendere poco rispetto ad altri per praticarlo, una volta comprata l’attrezzatura necessaria (che in tutto costa al massimo 400 euro) l’unica spesa è quella per gli spostamenti. Questo, unito alla maggiore visibilità e a maggiori risorse economiche, ha aiutato la crescita dell’arrampicata sportiva, sia in termini di numero di utenti sia in quello di quantità di falesie.

La ferrea etica che trasuda dalle biografie e dalle imprese degli scalatori come Wolfang Gullich, Lynn Hill e Manolo riuscirà a tramandarsi?
SG L’etica cambia sempre, in base al periodo storico e agli scalatori, quello che era lecito una volta ora è considerato bandito e viceversa, quindi non credo che si potrà tramandare, essendo uno sport individuale e molto libero. È però importante che ognuno si impegni a rispettare se stessi e gli altri, anche se le regole non sono scritte da nessuna parte.

La presenza dell’arrampicata alle Olimpiadi del 2020 di Tokyo è un traguardo importantissimo, che la Fasi ha perseguito con costanza. Come sta lavorando il team italiano in vista di questo importante appuntamento?
SG Il team ha già iniziato a lavorare per le Olimpiadi, si sta cercando di capire quale direzione prendere visto che a Tokyo sarà presente una versione nuova di combinata boulder, lead e speed che non è mai stata sperimentata prima. Per il momento ho preferito concentrarmi sulla lead che è la mia specialità, in pochi hanno iniziato ad allenarsi in tutte e tre. Siccome ancora non si sa se verrà riconfermata nel 2024 e con che formula, non so quanto valga la pena puntare alla gara olimpica, rischiando di cancellare le singole specialità. La mia paura è che si arrivi a una distorsione della natura dello sport e a una fusione impropria delle discipline, che rischia di annichilire gli specialisti. In Italia ci sono dei giovani molto forti in tutte e tre le specialità quindi sono sicuro che abbiamo tutte le carte per andare alle Olimpiadi.

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