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Cultura e scienza / Intervista

Arnaldo Benini. Viaggio nel tempo

Arnaldo Benini, professore emerito di neurochirurgia e neurologia presso l’Università di Zurigo

Secondo il neurochirurgo e neurologo, che ha insegnato all’Università di Zurigo, “non è corretto parlare di ‘percezione’ del tempo”, perché esiste ed è dentro di noi. E la simultaneità è un’illusione. Ci rendiamo conto di cosa accade dopo mezzo secondo

Tratto da Altreconomia 192 — Aprile 2017

“Il tempo esiste. È dentro di noi, e non possiamo cancellarlo, altrimenti si cancella il senso stesso dell’esistenza. Il tempo è una categoria fondamentale della vita”.
Arnaldo Benini è professore emerito di neurochirurgia e neurologia presso l’Università di Zurigo. Collabora alle pagine di scienza e filosofia dell’edizione domenicale del Sole 24Ore e ha passato una vita a studiare (e curare) il cervello umano.
Il suo ultimo saggio, “Neurobiologia del tempo” (Raffaello Cortina, 14 euro), è una perla di divulgazione scientifica che spazia da Platone fino ad arrivare alle più recenti scoperte delle neuroscienze congnitive. Ascoltandolo parlare del tempo, il tempo, letteralmente, vola.

“Il senso del tempo, come il senso dello spazio tridimensionale e della causalità, sono, per usare un concetto di Immanuel Kant, a priori rispetto all’esperienza della realtà, che è fuori di noi”

E non è un modo di dire.
AB Esistono due aspetti del tempo: c’è il tempo misurato dagli orologi, che gli conferiscono una quantità numerica. È chiamato anche tempo del governo, perché regola la vita sociale. E c’è il tempo personale, quello sentito e vissuto da ciascuno di noi. È il tempo che a volte passa in fretta e a volte non passa mai. Il tempo personale varia soprattutto a seconda dello stato affettivo. A volte dipende anche della temperatura esterna e di quella del corpo: negli stati febbrili il tempo scorre più veloce. Esso è il prodotto di meccanismi nervosi con particolare intervento dei centri dell’affettività. Ed è reale.

La fisica moderna sostiene però che il tempo non esiste, che dovremmo iniziare a “pensare il mondo in termini non temporali, sebbene questo risulti difficile sul piano dell’intuizione” come ha scritto Carlo Rovelli.
AB Non si può sostenere l’inesistenza del tempo, che è una caratteristica centrale di parte della natura vivente, in base a formule matematiche. I fisici hanno parlato e parlano del tempo senza chiedersi che cosa sia e da dove venga. Salvo forse Einstein, la cui ambivalenza nei confronti del tempo è un capitolo suggestivo della storia della scienza e della cultura. Le neuroscienze e la biologia comparata, con i dati della ricerca e non con speculazioni teoriche, dimostrano che il senso del tempo è dovuto a meccanismi cerebrali trasmessi da una generazione all’altra per via genetica. Essi si sono sviluppati in un percorso evolutivo di milioni di anni.
È una caratteristica degli esseri viventi con sistema nervoso, anche dei più remoti e minuscoli, come quello delle formiche. Il senso del tempo, come  il senso dello spazio tridimensionale e della causalità, sono, per usare un concetto di Immanuel Kant, a priori rispetto all’esperienza della realtà, che è fuori di noi. Noi inseriamo la realtà nelle categorie innate dello spazio e del tempo. Dal terzo anno di vita abbiamo il senso del tempo: prima, adesso, dopo. Prima dei tre anni non sono maturi i meccanismi della memoria episodica. Ecco perché non ricordiamo niente di quel periodo.
Il senso del domani, nello sviluppo,  precede quello dello ieri, del passato, che presuppone meccanismi della memoria episodica già maturi.
Il tempo è prodotto dal cervello, come il linguaggio, la cui grammaticale universale, per ricordare la straordinaria intuizione di Noam Chomsky, è una caratteristica strutturale di aree particolari di tutti i cervelli umani. Chiedere di “cancellare” il tempo è chiedere di cambiare cervello. Che poi è pretendere che i nostri cervelli cambino se stessi. Non esiste necessità evolutiva per selezionare un cervello senza i meccanismi del tempo. Il tempo è un meccanismo creato dal cervello. Per questo non è corretto parlare di “percezione” del tempo.
Non esiste, nel cervello, un organo della percezione del tempo. Il mondo si percepisce, il tempo si sente.

Lo studio naturalistico dei meccanismi nervosi del tempo inizia addirittura nel 1849, grazie all’intuizione di un giovane scienziato tedesco, Hermann von Helmholtz. A quasi 170 anni di distanza, oggi possiamo affermare quali sono le basi neurologiche del tempo?
AB Il cervello è una macchina fisico-chimica che produce elettricità. Possiamo individuare tutta la “filiera” che porta, ad esempio, a muovere un braccio: le aree motorie del cervello che si attivano, lo stimolo nervoso che arriva fino ai muscoli. Per il tempo si presuppone che non esistano aree circoscritte. Il senso del tempo sembra dipendere da molte, forse da tutte le aree della corteccia, e anche dal cervelletto, che sinora  si riteneva regolasse solo la precisione dei movimenti. Fino a 40 anni fa gli studi sul tempo erano molto limitati per la inadeguatezza della tecnologia della ricerca. Oggi, grazie alla visualizzazione cerebrale con risonanze magnetiche e con l’elettroencefalografie digitali, si può studiare il funzionamento del cervello umano vivo, e ottenere dati attendibili, anche se spesso discutibili, con tecnologie non invasive, prive di rischi. Così si è visto, ad esempio, che, se siamo noi gli artefici della causa, il tempo soggettivo fra una causa e il suo effetto è “compresso”, cioè ridotto, rispetto a quello misurato dall’orologio, Il tempo sembra scorrere uniforme. Invece è elusivo, irregolare, “flessibile”, l’ha definito lo psicologo Hermann  Minkowski.
Come medico, ho visto molti casi di alterazione del senso del tempo, soprattutto in pazienti affetti da patologie tumorali -ma anche da ictus-. C’è chi crede che sia trascorsa un’ora, quando sono passati 15 minuti, o viceversa. Fino ad arrivare a lesioni che tolgono completamente il senso del tempo: una condizione inimmaginabile per una persona sana.
L’esistenza del tempo come meccanismo cerebrale è confermata dal senso del tempo durante l’incoscienza del  sonno, acquisizione relativamente recente. Diversi, non molti, centri di ricerca neuroscientifica si occupano del tempo. Uno di loro sorgerà alla Sissa di Trieste.

“Dal momento che ci rendiamo conto della realtà dopo mezzo secondo, viviamo sempre e solo nel passato. Il presente è un’illusione dovuta al meccanismo della compressione del tempo”

Esiste poi “l’illusione della simultaneità”, una condizione che mette profondamente in crisi la nostra nozione di “presente”.
AB Se siamo toccati in una mano siamo certi di esserne coscienti nel momento in cui ciò avviene. La simultaneità è un’illusione, perché ne siamo coscienti solo dopo mezzo secondo. Questo è il tempo che il sistema nervoso impiega per elaborare gli stimoli sensitivi (non solo quello tattile) fino alla coscienza. Questo tempo è, come si dice, “compresso”: dell’intervallo fra stimolazione e coscienza di essa non si é coscienti. Lo scienziato Benjamin Libet, cui si devono lavori ed esperienze determinanti sul tempo, lo ha definito “rimando retroattivo”.
Dal momento che ci rendiamo conto della realtà dopo mezzo secondo, viviamo sempre e solo nel passato. Il presente è un’illusione dovuta al meccanismo della compressione del tempo. Essa è un evento chiave e costante dell’esperienza sensoriale e dei meccanismi cognitivi, cioè del nostro rapporto con la realtà e con l’interiorità della riflessione e delle emozioni. Ed è dovuta alla  selezione evolutiva dei meccanismi nervosi del tempo.

Che cos’è -e dove risiede- la coscienza, professor Benini?
AB Di tutto quello che accade nei meccanismi nervosi della corteccia cerebrale che alimentano la coscienza, diventa cosciente solo un decimo. La coscienza è come la punta di un iceberg. Ciò che sta sotto la superficie dell’acqua influenza in varia misura la coscienza, ma noi non ce ne accorgiamo. Per l’uomo è più corretto parlare di autocoscienza, perché siamo gli unici esseri viventi capaci di porre sé stessi a oggetto della propria riflessione. Ciò grazie ai lobi prefrontali, che si sono sviluppati a partire da circa 2 milioni di anni fa.
Condividiamo con lo scimpanzé il 97,5% del genoma, ma i lobi prefrontali nello scimpanzé mancano. Il loro sviluppo è stato lo spartiacque morfologico fra noi e i primati. Con i lobi prefrontali è partita l’evoluzione culturale, di cui solo gli uomini sono capaci.
Fino a pochi anni fa si cercavano nel cervello umano i centri dell’autocoscienza. Gli studi più recenti mostrano che la coscienza è frutto di un’attività cerebrale diffusa, dell’intera corteccia che elabora stimoli che vengono trasmessi ai lobi prefrontali, e di cui un decimo diviene cosciente. Che cosa significhi “diventare” cosciente non lo sappiamo. E probabilmente non lo sapremo mai. L’autocoscienza non sembra in grado di capire se stessa.

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