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Diritti / Opinioni

Armi a bordo: una minaccia per le Ong

Il ministero dell’Interno ha imposto a chi salva vite nel Mediterraneo di ospitare funzionari armati. Negando un principio umanitario. La rubrica di Luigi Montagnini

Tratto da Altreconomia 197 — Ottobre 2017

Perché è così difficile accettare che Medici Senza Frontiere, durante le operazioni di Search and Rescue nel Mediterraneo, non possa avere a bordo delle proprie navi funzionari armati della Polizia di Stato italiana? Abbiamo contribuito a elaborare il Codice di condotta del ministero degli Interni insieme ad altre Ong, ma non lo abbiamo firmato per un motivo semplicissimo: siamo un’organizzazione non governativa medico umanitaria e abbiamo il dovere di difendere la nostra neutralità.

85%: la percentuale di migranti sbarcati in Italia e provenienti dall’Africa subsahariana che in Libia ha subito torture e trattamenti inumani e degradanti (fonte: Medici per i Diritti Umani, 2017)

Nel 2016 MSF ha gestito 468 progetti in 71 Paesi, chiedendo ovunque di non indossare armi all’interno delle nostre strutture. Il simbolo composto da un cerchio rosso barrato con al centro un fucile è all’ingresso di ogni nostra clinica e su ogni nostro mezzo di trasporto, dal fuoristrada sporco di fango che macina chilometri per raggiungere una clinica dispersa nella savana, al TIR che trasporta i container destinati ad allestire un nuovo ospedale da campo. Perché dovremmo privarci di questo diritto su una nostra nave?

Essere detestati perché si salvano migranti in mare è comprensibile. Non giustificabile, ma comprensibile. Non serve scorrere i commenti in calce agli articoli dei giornali e sulle pagine dei social media per saggiare il clima culturale: basta andare al lavoro ogni mattina. Capisco che la gente comune dimentichi facilmente che essere medici ci impone di salvare vite umane, in una guerra, per un terremoto, durante una carestia così come in mezzo al mare; che le operazioni di salvataggio in mare assorbono solo l’1,2% delle risorse che investiamo nei nostri progetti nel mondo; che le nostre operazioni in mare sono coordinate dalla Guardia Costiera italiana e che ogni sbarco di migranti soccorsi viene gestito dalle forze di polizia; che “l’emergenza migranti” non sia un’emergenza; che la quota di migranti che affrontano il mare per arrivare in Europa è minima rispetto a quanti cercano rifugio in Paesi di altri continenti e che l’Europa ospita solo il 6% dei rifugiati globali; che respingere i migranti in Libia equivale a esporli a detenzione e torture; che non sono le Ong a favorire i trafficanti ma le miopi politiche europee. Comprendo tutto questo perché so che l’informazione è un processo attivo. “Perché non volete funzionari di polizia giudiziaria armati a bordo? Avete qualcosa da nascondere? Non capite che è anzitutto per proteggere voi stessi?”. No, non lo capiamo. Non ci proteggiamo con guardie armate in Afghanistan e in Siria dove bombardano i nostri ospedali, figuriamoci in mezzo al mare, dove tutto quello che un naufrago può indossare è un vestito lercio di cherosene e un giubbotto di salvataggio che non galleggia.

C’è chi ha risposto a questa domanda ben prima che venisse montato il “caso Ong”. È stato Christophe Fournier, presidente internazionale di MSF, in un discorso tenuto a una Conferenza NATO nel dicembre 2009. “Sono abituato a essere vulnerabile -disse- e sono abituato alle persone che cerchiamo di aiutare, che sono di gran lunga più vulnerabili di MSF. È proprio la vulnerabilità che nasce dell’essere operatori umanitari che ci fornisce protezione. Per MSF, questa vulnerabilità è radicata nel nostro non essere armati di altro che dei nostri stetoscopi, dei nostri farmaci e del nostro impegno di fornire assistenza medica urgente sulla sola base dei bisogni”. I pericoli non nascono dall’essere disarmati, ma dalla mancanza di rispetto dei ruoli di ciascuno.

Luigi Montagnini è un medico anestesista-rianimatore. Dopo aver vissuto a Varese e Londra, oggi è a Genova, dove lavora presso l’Istituto Gaslini. Da diversi anni collabora con Medici Senza Frontiere.

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