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Argentina, in tre mosse lo scacco di un Paese – Ae 25

Numero 25, febbraio 2002La crisi del Paese sudamericano ha radici profonde. A partire dai tempi della dittatura militare, fino al passato più recente. Scelte economiche azzardate che, col benestare del Fondo monetario internazionale, hanno favorito ricchi e speculatori stranieri, a…

Tratto da Altreconomia 25 — Febbraio 2002

Numero 25, febbraio 2002

La crisi del Paese sudamericano ha radici profonde. A partire dai tempi della dittatura militare, fino al passato più recente. Scelte economiche azzardate che, col benestare del Fondo monetario internazionale, hanno favorito ricchi e speculatori stranieri, a svantaggio degli strati poveri della popolazione.

Il debito estero argentino esplode alla fine degli anni Settanta, nel quinquennio della dittatura militare. Se nel 1976 corrispondeva a 8 miliardi di dollari, nel 1981 lo troviamo già a 35 miliardi di dollari. Più tardi si verrà a sapere che il debito serviva in gran parte a coprire la fuga di capitali. In molti casi i prestiti concessi dalle banche internazionali non davano luogo ad alcun movimento di denaro. Si concretizzavano in una semplice apertura di conto a nome di questo o quel notabile argentino.

A fuggire, naturalmente, non erano solo i capitali ottenuti in prestito dalla giunta militare. All'emorragia parteciparono anche le imprese private che approfittarono del nuovo corso finanziario per procurarsi dollari da mettere a riserva in banche estere. Filiali di multinazionali come Mercedes, Ford, Ibm, furono in prima linea in questo genere di operazioni. Ma anche molte famiglie benestanti perteciparono alla festa, utilizzando l'opportunità offerta dal governo di poter cambiare ed esportare fino a 20 mila dollari. Tanto per avere un'idea dell'entità del fenomeno, basti dire che fra il luglio e il novembre 1976, ogni mese la Chase Manhattan Bank forniva al sistema bancario argentino 30 milioni di dollari ad un tasso dell'8,75%. Nello stesso periodo riceveva dall'Argentina un flusso mensile di 22 milioni di dollari su cui pagava un tasso d'interesse del 5,5%. Il tutto sotto l'occhio vigile del Fondo monetario internazionale che assisteva il governo militare con un consigliere permanente, Dante Simone.

Il colmo dello scandalo si ebbe quando cadde la dittatura. Invece di ripudiare il debito accumulato dai militari, dichiarandolo illegittimo, i nuovi governi si fecero garanti della restituzione di tutto ciò che l'Argentina doveva al resto del mondo. Come dire che tutto il debito estero, compreso quello accumulato dai privati, diventava un problema di Stato. E forse non poteva essere altrimenti. Ma invece di ricorrere a misure drastiche come quella di individuare chi aveva conti all'estero e di minacciare la confisca di tutti i loro beni se non avessero fatto rientare le somme esportate, i vari governi che si sono susseguiti hanno adottato un'altra politica che ha portato il Paese alla rovina. La ricetta applicata è stata quella del Fondo monetario internazionale: austerità per lo Stato e riverenza per i privati. Al solito due pesi e due misure giustificate con l'argomentazione che il debito estero non si estingue tutto allo stesso modo. Quello accumulato dal governo si estingue ripagandolo. Quello accumulato dai privati si estingue compensandolo. Di qui la sua prima medicina che impone allo Stato un giro di vite nel bilancio pubblico. L'ordine è incassare il più possibile e spendere il meno possibile, in modo da avere un buon avanzo per pagare gli interessi e le rate in scadenza. Ma il Fondo, si sa, non vede di buon occhio che si tartassino i ricchi, per cui conclude che gli Stati debbono far cassa vendendo i beni pubblici, aumentando le tasse di quei buoni a nulla che sono gli strati sociali più bassi e tagliando le spese sociali. Il Fondo argomenta che queste scelte sono di grande utilità anche per l'altra parte della ricetta, quella che punta a compensare il debito facendo rientrare capitali nel Paese. Naturalmente il Fondo inorridisce di fronte a qualsiasi ipotesi di costrizione. Il suo credo è libertà per chi ha soldi, per cui afferma che la sola cosa da fare è di creare un clima favorevole che attiri gli investitori esteri. Così ecco giustificata la classica impostazione liberista che impone sacrifici ai più poveri e costruisce ponti d'oro ai ricchi.!!pagebreak!!

Detto fatto, da 20 anni a questa parte in Argentina si è adottata una politica che ruota attorno a tre assi:

1. aumento delle tasse a carico dei redditi medio-bassi e taglio delle spese sociali;

2. vendita delle imprese e del patrimonio di stato;

3. misure a salvaguardia degli investitori stranieri.

Per attrarre gli investitori esteri vennero messe in vendita le migliori imprese pubbliche a prezzi di svendita. Inoltre vennero prese una serie di misure per far sentire gli stranieri al riparo da qualsiasi rischio. Peccato che tutte queste scelte si siano rivelate fallimentari per l'economia argentina. Il provvedimento che si è dimostrato più disastroso è stata la decisione di legare il peso al dollaro. Così facendo si è voluto lanciare un messaggio chiaro agli investitori: “Se verrete in Argentina vi garantiremo che non avrete sorprese. Potrete esportare tutto quello che guadagnerete senza paura di perdite perché manterremo i cambi fissi”.

Purtroppo negli ultimi vent'anni il dollaro non ha mai smesso di salire ed anche il peso argentino è sempre stato sopravvalutato. Il che ha avuto due effetti negativi: ha reso le merci argentine sempre meno convenienti ed ha incoraggiato le importazioni, che risultavano a buon mercato. L'una e l'altra cosa hanno fatto ridurre la richiesta di prodotti interni provocando la distruzione graduale dell'apparato produttivo argentino che ha portato la disoccupazione al 20%. Contemporaneamente si è creato uno squilibrio commerciale che ha peggiorato ulteriormente la situazione debitoria dell'Argentina.

Nel frattempo i capitalisti argentini continuavano a sentirsi più sicuri all'estero che a casa loro. Perciò continuavano ad esportare capitali all'estero trasformando l'Argentina in un secchio bucato che perdeva più di quanto recuperava..In effetti la ricchezza accumulata dagli argentini fuori dal Paese è cresciuta al ritmo del 9% annuo e nel novembre 2001 aveva raggiunto l'astronomica cifra di 101 miliardi di dollari sotto forma di depositi presso banche estere o investimenti in azioni e titoli di imprese estere.

Fallita questa parte dell'operazione, il governo argentino ha tentato di arginare la falla verso l'estero ricorrendo ai prestiti del Fondo monetario internazionale. Così si è innescato quel meccanismo perverso che trasferisce tutto il debito estero sul bilancio pubblico.

È stato l'inizio della fine. Nonostante i tagli alle spese sociali che hanno demolito la scuola, la sanità e il sistema pensionistico, lo Stato non ha mai avuto abbastanza soldi per pagare gli interessi e le rate che puntulamente andavano in scadenza. Per far fronte alla situazione lo Stato argentino ha accumulato debiti lanciando un prestito dietro l'altro. Piano piano si è formata una voragine che nel nel dicembre 2001 era di 155 miliardi di dollari. Quasi tutto verso l'estero perché la raccolta di fondi è avvenuta tramite l'emissione di titoli di Stato collocati sul mercato internazionale .

Grazie a questo meccanismo, le banche internazionali non sono mai uscite di scena. Perfino banche italiane come Banca nazionale del lavoro (Bnl) e IntesaBci, che hanno filiali disseminate in tutta l'America Latina, sono state ampiamente parte del gioco. Da una parte perché hanno comperato esse stesse titoli di Stato dell'Argentina; dall'altra perché hanno fatto da intermediarie per la vendita di tali titoli verso il pubblico italiano. Si stima che in Italia sia stato collocato debito pubblico argentino per circa 10 miliardi di euro. Via via che il tempo passava, gli esperti bancari si rendevano conto della catastrofe a cui si andava incontro, ma nessuno ha mai suonato il campanello d'allarme per non perdere l'opportunità di intascare la montagna di interessi che il governo argentino distribuiva, nonostante tutto. La parola d'ordine era: “Spolpare la preda finché si può. Poi, quando verrà la crisi si vedrà”. È così che l'Argentina, pur avendo rimborsato, in 25 anni, circa 200 miliardi di dollari, ne deve ancora 150. La situazione è precipitata nel dicembre 2001 con la rivolta popolare che si è conclusa con 25 morti e 200 feriti. Ancora una volta il dio denaro, protettore dei rapaci, ha avuto la meglio sulla giustizia e sui diritti.

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