Salute / Intervista
Antonio Esposito. Legati come Cristo in croce

Le storie dei corpi legati e delle vite spezzate dalla contenzione sono al centro del nuovo libro pubblicato dal ricercatore per la casa editrice Sensibili alle foglie. Un volume prezioso che ricostruisce attraverso un approccio multidisciplinare i numerosi significati del ricorso alle “fascette” in tanti luoghi del nostro Paese. Dai reparti ospedalieri alla Residenze per anziani. “Un libro politico”, come spiega l’autore del volume che verrà presentato al Festival dei Matti di Venezia a fine maggio
“La contenzione non è ‘solo’ una pratica utilizzata o meno dalla psichiatria ma il sintomo di una comunità incapace di interrogarsi adeguatamente sulla sofferenza delle persone”. Antonio Esposito tratteggia con precisione la “scelta di campo” in cui posizionare il suo ultimo volume intitolato “Come cristo in croce”: non un libro di psichiatria ma un “libro politico” che richiama l’attenzione soprattutto sul contesto in cui l’azione di legare le persone al letto avviene.
Il testo, pubblicato per la casa editrice Sensibili alle foglie a fine 2024, è frutto di un articolato progetto di ricerca bioetica promosso dall’Istituto di studi politici “S. Pio V”: attraverso “storie, dialoghi e testimonianze sulla contenzione”, restituisce una fotografia di quei luoghi in cui sopravvive il “dispositivo di internamento” tipico dei manicomi, che limita la libertà in nome della sicurezza a qualunque costo. Anche della vita di quei “sommersi” che “restano inchiodati” ai letti ospedalieri: vicende strazianti che però non incrinano la “normalizzazione” della contenzione.
Esposito, qual è la “retorica” che giustifica il “legare le persone”?
AE Si può sintetizzare nella frase “è per il suo bene”. Questo è un mantra che si ripete in tutti i luoghi in cui la pratica della contenzione si realizza, dagli ospedali alle residenze per anziani e che, nell’ambito della psichiatria, reitera lo stigma per cui il sofferente psichico è sempre e comunque pericoloso a sé e agli altri. Un paradigma che neanche la legge 180 è riuscita a superare del tutto, soprattutto in termini culturali: spesso si interviene per bloccare la sintomatologia, per contenerla, senza prendersi realmente carico di quella sofferenza. A volte più consapevolmente, altre volte, invece, la contenzione è una routine trattamentale, risponde a mere scelte organizzative che consentono di gestire il rischio eventuale con un numero ridotto di personale e senza investire in altre forme di assistenza. Il “legare”, quindi, risponde anche a logiche di contrazione della spesa e di profitto.
Ci aiuti a capire meglio.
AE Prendiamo come esempio le strutture per anziani dove, spesso, la contenzione è preventiva e utilizzata rispetto all’eventualità che qualcosa possa accadere: lego al letto “l’ospite” perché potrebbe cadere. Mettere le fascette diventa una modalità operativa di una struttura in cui quella tipologia di intervento è accettata e normalizzata, quasi data per scontata, diventa uno “strumento” come altri.
Perché non si riesce a “vedere” quella pratica come problematica?
AE Ci sono diverse ragioni. In psichiatria si avverte innanzitutto un problema “formativo”: la storia e i principi della legge 180, nei testi accademici sono spesso ridotti a una nota a margine, e anche il tema della contenzione non viene affrontato nelle aule. Così, gli operatori e le operatrici, senza aver minimamente studiato o essersi interrogati su che cosa significhi quell’azione, imparano sul campo come si lega. Si genera un “passaggio di consegne” che normalizza la contenzione e che incide sullo sguardo che si ha sulla persona in cura. In tutte le forme assistenziali chi pratica la contenzione, in genere, non lo fa perché “cattivo” ma perché il suo sguardo deresponsabilizzato reifica la persona sofferente, la deumanizza trasformandola in una sorta di oggetto. Questo permette di non “sentire” l’immane sofferenza che genera la contenzione. Ancora, legare è avvertito come meno faticoso (seppure in realtà le linee guida imporrebbero un controllo costante) e c’è, poi, come accennato, il tema del profitto.

Un risparmio che vale tanto per gli enti gestori privati di determinate strutture, quanto per il pubblico che spesso lamenta scarsità di risorse economiche.
AE Sì, anche se, almeno con riferimento al servizio pubblico, rischia di diventare una maschera dietro cui nascondersi. C’è sicuramente una questione di scarsità di risorse, ma anche e soprattutto di come si gestiscono e oggi la contenzione è diffusa perché trova un fertile humus culturale, teorico e operazionale: se, come accaduto, si utilizzano addirittura i fondi stanziati per superare la contenzione per realizzare moduli formativi sull’utilizzo dell’elettroshock e quindi per l’acquisto dei macchinari per l’elettrostimolazione, significa che la direzione scelta è dettata da una determinata visione, non da una necessità economica.
Una direzione che rischia però di non essere “medica”. La Corte di cassazione nella sentenza sulla morte di Francesco Mastrogiovanni, deceduto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale “San Luca” di Vallo della Lucania dopo essere stato legato per più di 87 ore consecutive, sancisce che la contenzione non può mai essere definita un atto medico. Perché allora continua a essere utilizzata?
AE La sentenza Mastrogiovanni è decisiva per “smontare” quel filone che, proponendo la contenzione come atto terapeutico, è giunto a rivendicare “l’arte di legare”. Oggi possiamo mostrare giuridicamente la mendacità di quelle tesi. Quella stessa sentenza però, al contempo, pur intendendola quale presidio con funzioni meramente cautelari, da utilizzare per il minor tempo possibile e sotto una costante osservazione solo quando vi è un rischio attuale e concreto, lascia comunque aperta la possibilità di legare: questo rende di fatto la contenzione “legale”, anche se entro certi limiti, che poi nella realtà fattuale quasi mai vengono rispettati. Quindi, il superamento della contenzione è sicuramente un orizzonte praticabile, ma solo se si assume questo obiettivo quale scelta teorica e operazionale, evitando le scorciatoie di un legalismo più morale che di diritto.

I limiti sanciti dalla Cassazione sono superati in altre vicende umane che ripercorre nel libro.
AE Oltre a Mastrogiovanni, ripercorro la storia di Elena Casetto, neanche ventenne, morta carbonizzata nel tentativo di liberarsi dalle fascette con cui l’avevano legata lasciandola sola in una stanza del reparto di psichiatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e quella di Wissem Ben Abdel Latif, 26enne tunisino morto al San Camillo di Roma dopo oltre cento ore di contenzione. Sono loro quelli che Primo Levi descriverebbe come i “sommersi”, che non possono testimoniare in prima persona quello che hanno vissuto. Siamo noi, in questi casi, a doverci far carico di narrare l’orrore, provando a restituire a quelle storie almeno un racconto. Quando invece i “salvati” possono ancora parlare allora è necessario assumere una postura di ascolto che riconosca quella testimonianza come valore.
Come nel caso di Alice Banfi, che nel raccontare la sua esperienza di contenzione paragona quella violenza allo stupro che lei stessa ha subito.
AE La testimonianza di Alice è davvero preziosa e fa emergere anche la centralità della dimensione di genere: il paragone con lo stupro ci racconta che cosa può significare per un corpo femminile essere legata braccia, gambe, busto, al letto. D’altro canto, come ci ha insegnato Assunta Signorelli, la storia della psichiatria è una storia scritta dagli psichiatri, perlopiù bianchi e uomini, con un forte sguardo maschile e maschilista. Mettersi in ascolto delle parole di Alice, allora, fa luce anche su questo aspetto ma, soprattutto, ci ricorda l’importanza di mettere al centro la testimonianza, la narrazione di chi subisce la contenzione e la descrive come un atto disumanizzante, che lacera non solo il rapporto terapeutico -e quindi la possibilità di cura- ma segna per sempre la vita di quella persona e di chi le sta accanto. Quelle parole ci aiutano a uscire dalla banalità del “non può essere altrimenti”.
All’interno del volume dedica un capitolo anche all’utilizzo degli psicofarmaci e al rischio delle “camicie chimiche”. Che cosa c’entrano i farmaci con la contenzione?
AE Spesso si considera solo la forma della contenzione meccanica, ma non è l’unica. Esistono anche la contenzione ambientale e quella farmacologica. Per comprenderla nella sua complessità, dobbiamo considerare la contenzione come parte di quel dispositivo di internamento che sopravvive, nella prassi, al superamento dei manicomi. Dai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) ad alcuni reparti ospedalieri fino ad alcune comunità terapeutiche, strutture di accoglienza per anziani e persone con disabilità. Questi luoghi di internamento fanno da “cornice” alla contenzione, sia fisica, che è l’espressione più visibile di questa riduzione della libertà, sia ambientale (attraverso la strutturazione degli spazi) sia chimica (con uno smodato uso di psicofarmaci). Diversamente da quel che si potrebbe pensare, il “legare” non è alternativo al “sedare”, quasi sempre vanno di pari passo. La storia di Wissem Ben Abdel Latif lo dimostra: rimane in uno stato di contenzione per oltre cento ore, nonostante la pesante terapia che gli hanno praticato. Il farmaco è utile e a volte indispensabile se viene utilizzato, in scienza e coscienza, per restituire alla persona la possibilità di entrare in relazione in un contesto terapeutico, altrimenti svolge la stessa funzione di una fascetta che ti lega al letto, seppure in modo meno visibile.
Presenterà il suo volume al Festival dei Matti, di cui è anche membro del comitato scientifico. Perché per l’edizione di quest’anno avete scelto il titolo “Conflitti distratti”?
AE Perché la conflittualità è un elemento necessario nelle relazioni, in quanto fondante di qualsiasi tipo di confronto vero. Oggi si tende spesso a una pacificazione che si realizza, in tanti modi, come silenziamento del conflitto. Anche sui corpi, attraverso la contenzione, ma pure sull’informazione: si toglie il “cuore” nel raccontare le storie paradigmatiche del nostro tempo, distraendosi e distraendoci dalle radici e dai motivi scatenanti che generano la esclusione, sofferenza e guerra. Così, ad esempio, oggi, ai ragazzi e alle ragazze sottraiamo lo spazio per esprimere quello che sentono, lo assoggettiamo a un processo di patologizzazione che scatta al primo segnale di sofferenza. Questo ci distoglie da un aspetto centrale: il modello sociale che abbiamo costruito è iatrogeno, soprattutto per i più giovani. Preferiamo soffocare nel silenzio le loro grida, sia quelle di dolore sia quelle di lotta e rivendicazione, medicalizzandole e criminalizzandole sì da non metterci in discussione. Questa però è pacificazione, non pace. E ne vediamo gli effetti in tutto il mondo.
Dal 22 al 25 maggio si svolgerà a Venezia la XV edizione del “Festival dei Matti“. “Conflitti distratti. Là dove non stiamo” è il filo rosso che lega tre giorni ricchi di incontri e momenti di confronto e scambio si pongono come obiettivo l’interrogarsi su dove finiscano quei conflitti “distratti” che vengono “spinti nelle periferie delle nostre narrazioni collettive come vorrebbero l’azione politica, terapeutica e pedagogica, ci condanna ad esserne sempre e comunque sequestrati, in un gorgo di violenza senza fine”. Il programma del 2025 è disponibile a questo link.
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