Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Cultura e scienza / Varie

Antonio Diodato. Storia di un cantautore

Il primo maggio suona a Taranto, come ci racconta una delle sue anime, Antonio Diodato. "Quello del primo maggio per noi non è un festival, ma una manifestazione che si serve del supporto dei musicisti per far arrivare un messaggio preciso. E il messaggio è che non è da Paese civile che si muoia per produrre acciaio"

Tratto da Altreconomia 181 — Aprile 2016

Antonio Diodato (o più semplicemente Diodato) è un artista trasparente e solido come la sua voce. Trentaquattro anni, ha alle spalle due dischi, la partecipazione a Sanremo e in programmi televisivi, importanti collaborazioni e quasi 10 anni di esperienza. Da un palco all’altro. “Ho imparato la mia professione suonando dal vivo. Oggi può sembrare una cosa di altri tempi, ma reputo sia ancora la strada migliore, specie considerando come si muove la musica oggi. Ho iniziato per gioco, come credo sia giusto fare. Poi mi sono trasferito a Roma a studiare e da lì le cose si sono fatte via via più serie. Salire sul palco, con una band, ti aiuta a imparare a usare la voce, a dosarla, e a capire come si cura il rapporto con il pubblico. Tuttavia c’è anche dell’altro. Quando ho cominciato a comporre ho capito che la musica dal vivo ti dice molto della ‘verità’ delle tue parole. In camera tua magari le cose che scrivi ti sembrano eccezionali, ma è solo sul palco che capisci se davvero ti ci puoi identificare. La mia musica si è plasmata facendo molti concerti, in situazioni anche piuttosto diverse. 

All’estero mi capita spesso di suonare da solo, chitarra e voce. Anche questa è una dimensione importante, una questione di sfumature”. 

Come componi i tuoi pezzi?
AD Il processo creativo parte soprattutto da qualcosa di  intimo e personale. Poi certo è capitato anche che in studio di registrazione, tra un pezzo e un altro, si improvvisi con gli altri musicisti. A quel punto lavoro sulla melodia, e poi sul testo. A volte può succedere invece di partire non dalla musica. Magari anche solo da una frase, o un pensiero, mentre passeggio per strada. Non c’è un metodo preciso, tutto dipende molto dallo stato d’animo del momento. Quel che conta è poi sapersi distaccare. È importante riascoltarsi e capire se quella è la verità che rappresenta ciò che volevi dire, se ti ci ritrovi. O se è solo parte di una veemenza che provavi in quell’istante. Ecco perché può accadere di non cantare più alcuni brani. Sono cresciuto ascoltando molto musica britannica, e solo dopo ho prestato maggiore attenzione alla musica italiana, che da ragazzino avevo stupidamente snobbato. Cerchi sempre di scoprire cose distanti ma crescendo ti rendi conto che per quanto tu possa andare lontano con i tuoi ascolti, le tue radici musicali apparterranno a sonorità e scrittura tipiche della tua lingua. Entro il 2016 dovrebbe uscire il mio nuovo album: scriverlo è un percorso bello ma molto doloroso. Vuol dire mettere le mani in una ferita. Ci sono un sacco di trappole nella nostra coscienza, quando vogliamo essere il più sinceri possibile. 

Come è cambiato il mercato musicale?
AD Credo in peggio. La produzione musicale è ancora legata al supporto fisico, il compact disc, che però non ha più mercato. I big della musica italiana -che con le loro vendite permettevano alle case discografiche di investire su cose maggiormente di nicchia, di sperimentare- vendono anche un decimo rispetto a 15 anni fa. 

Si muovono altre economie: il passaggio a modelli di musica “liquida” -come Spotify e Deezer- non riesce a mantenere il sistema, a soppiantare quell’economia. Vedo un paesaggio desolante. Le case discografiche hanno un timore, che capisco: come investire. Si fa molto meno e  non sempre in direzione della qualità. C’è chi ha detto che oggi forse Lucio Battisti o Lucio Dalla non sarebbero stati notati. Sappiamo che la Rete dà grandi possibilità, e che il messaggio, se è forte, arriva. Ma Internet è anche piuttosto ingolfato da migliaia di progetti e l’attenzione è calata. Inoltre, i cosiddetti talent hanno creato un problema importante, perché è chiaro che una casa discografica -in crisi- preferisce scommettere su un artista la cui promozione te la fa già la tv. A livello artistico però si tratta quasi sempre di ragazzi molto giovani che ancora si devono formare. Dall’altra parte conosco tanti artisti di livello che però hanno difficoltà ad andare avanti.

Cambia anche la professione?
AD Siamo tornati un po’ artigiani. E forse va anche bene, è ciò che cerco di fare. La dimensione è più familiare, l’attenzione maggiore. Sono consapevole che il periodo di magra economica non coincide con la perdita di qualità musicale. Solo, forse si è persa un po’ la forza nella scrittura che c’era negli anni 90. Nelle tematiche trattate leggo meno cattiveria. Peccato, perché questo in realtà è un momento storico in cui si potrebbero dire tante cose. C’è un po’ di paura, e in parte è anche un’autocritica. 

Ha ancora senso parlare di musica indipendente? 
AD Negli anni 90 essere indie era una scelta di vita. Io non mi considero tale, anzi detesto le classificazioni, che ghettizzano la musica. Tanti giocano su questo, per dare maggior forza alle cose che fanno. Io penso che la cosa migliore sia abbattere i confini. Con il mio percorso musicale, anche se molto limitato, cerco di dimostrarlo. L’incontro con Manuel (Agnelli, degli Afterhours, ndr) è stata da questo punto di vista un’illuminazione: una persona umile, con un’apertura mentale sorprendente. Mi ha fatto capire che quelle barriere sono stupide, che la musica ti dice qualcosa o non ti dice nulla. Ieri, oggi, domani. Le possibilità sono talmente tante che è inutile chiudersi in steccati. 

La musica si sta riprendendo gli spazi pubblici?
AD Da anni collaboro con un progetto, che in realtà è una famiglia: l’esperienza dell’Angelo Mai di Roma (www.angelomai.org). Lì mi sono formato come artista. Ho ricevuto tanto, in progetti molto belli. L’Angelo Mai è uno di quei luoghi importanti che danno spazio a iniziative che avrebbero difficoltà a trovarlo altrove. Lotto perché uno spazio come quello sia tutelato: dovrebbe essere considerato una risorsa e non un problema. La cultura crea lavoro, muove l’economia, può essere un punto di forza in un Paese come il nostro. La cultura ha bisogno di progetti anche più complessi, più difficili, spazi dove creare e fare. Non solo musica, anche teatro. La politica degli ultimi anni ha soffocato questo spazi a Roma. Non sono nessuno per giudicare ma a volte provo un senso di frustrazione di fronte all’appiattimento culturale che osserviamo: voluto, deciso, attuato.

Sei nato ad Aosta ma le tue origini sono a Taranto, città dove hai vissuto importanti anni delle tua vita. Sin dal 2013 hai partecipato al concerto del primo maggio di Taranto, alternativo a quello romano.
AD Ho vissuto a Taranto anni fondamentali, per i quali mi sento tarantino. Taranto è una città cui non è stata data una scelta. È stata imposta una soluzione col miraggio della risoluzione di tutti i problemi -non solo il polo siderurgico dell’Ilva, sono tante le industrie dell’area-, creandone di ben peggiori. E non c’è solo l’inquinamento, ma un territorio distrutto. Ma l’Ilva è destinata a chiudere, non è al passo coi tempi. Possono fare tutti i decreti salva-Ilva del mondo -sono già 9!- e pagare tutte le multe che l’Unione europea erogherà perché l’impianto produce senza essere a norma. Ma alla fine non sarà più competitiva. Si parla della possibilità di convertire le multe dell’Unione Europea in fondi per la bonifica a cui lavorerebbero gli stessi operai oggi impegnati nella produzione. Sarebbe un’ottima cosa e in questo modo si risolverebbe anche la questione occupazionale.

Ma se il destino è questo allora è importante costruire un’alternativa. Quello del primo maggio per noi non è un festival, ma una manifestazione che si serve del supporto dei musicisti per far arrivare un messaggio preciso. E il messaggio è che non è da Paese civile che si muoia per produrre acciaio. Fino ad oggi la manifestazione del primo maggio è stata un vero e proprio miracolo, frutto della determinazione di pochi, con 300mila persone ogni anno (questo sarà il quarto) e senza appoggi politici o di lobby, finanziata solo dalla gente con crowdfunding e donazioni. Tutti gli artisti vengono gratuitamente. Quest’anno la manifestazione durerà una settimana intera, dal 23 aprile, e si chiamerà “Riconversioni”: mostre, concerti, workshop, artisti. Un assaggio di come potrebbe essere il futuro sempre. 
 

© riproduzione riservata

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.


© 2024 Altra Economia soc. coop. impresa sociale Tutti i diritti riservati