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Cultura e scienza / Intervista

Andrea Staid. L’antropologia, sapere di frontiera

Scrittore e docente, critica il concetto di multiculturalismo -che crea ghetti e barriere- a favore del meticciato “come possibile antidoto ai preoccupanti richiami alla purezza”

Tratto da Altreconomia 208 — Ottobre 2018

“L’antropologia è un sapere di frontiera”, un confine che, nei suoi lavori, Andrea Staid attraversa e decostruisce per poter interpretare le relazioni tra culture. Nato nel 1982 a Milano, Staid insegna antropologia culturale e visuale alla Nuova accademia di belle arti (naba.it). La casa editrice Milieu ha recentemente ripubblicato il suo libro “Le nostre braccia. Meticciato e antropologia delle nuove schiavitù”, uscito nel 2011 con Agenzia X: un volume ancora attuale che vuole “valorizzare il pensiero meticcio come possibile antidoto ai sempre più numerosi e preoccupanti richiami alle origini e alla purezza”, come racconta ad Altreconomia.

Tu parli de “l’importanza di un antirazzismo che sia meticcio”. Che interpretazione dai alla parola “meticcio”?
AS È una parola che prende forma nell’ambito della biologia, ma che dobbiamo ribaltare, spostandoci fuori dalla disciplina nella quale si è costituita. Il meticciato non è una fusione o un’osmosi, ma un confronto tra tanti, plurale, che diventa dialogo. Dobbiamo ripartire dal dato di fatto che la purezza è inesistente: le persone sono costantemente coinvolte in incontri e scontri che modellano le culture. Si tratta di un messaggio che dobbiamo far passare soprattutto ai giovani, a partire dalle piccole cose quotidiane: l’antropologo torinese Marco Aime ha ripreso il testo di un manifesto berlinese molto efficace per mostrare che solo il nostro vicino resta straniero, mentre guidiamo una macchina giapponese, beviamo un caffè brasiliano e contiamo con numeri arabi. Per risoggettivizzare le migrazioni oggi serve costruire un progetto meticcio, di trasformazione e scambio reciproco, anziché di chiusura tra culture diverse e che spesso sono incapaci di comunicare tra loro.

In questo senso, fai una critica del multiculturalismo. Perché ritieni che sia un modello che non funziona?
AS Spesso usiamo come sinonimi parole che hanno significati diversi: multietnico, multiculturale, interculturale. Il multiculturalismo sostiene la convivenza tra diverse culture, date come fisse e incapaci di mutare. Un fenomeno che, a mio parere, ha di fatto aumentato la frammentazione e ha creato dei ghetti isolati (penso a via Padova a Milano, o Rosarno, o ancora Castel Volturno). Il limite, infatti, è la mancanza di relazionalità tra le culture che il multiculturalismo vuole istituzionalizzare. Una risposta sta proprio nel dare importanza invece al pensiero meticcio, come risultato di un accordo sempre rinegoziabile tra individui in relazione. “Il meticcio non è il punto, ma la frase”, come ha scritto il filosofo francese Gilles Deleuze: quel che conta è il percorso che si fa nello scambio tra culture, in continua trasformazione.

In che modo l’antropologia ci aiuta a interpretare questi fenomeni?
AS Ha una natura dialogica: le etnografie sono sempre polifoniche ed è questa pluralità di voci che dobbiamo restituire ai nostri interlocutori per avvicinarci insieme a una comprensione della complessità del presente. Per questo la parte della ricerca etnografica ha un rilievo fondamentale nei miei lavori. Ho riflettuto a lungo su come restituire al lettore, attraverso il testo, la ricchezza delle persone che incontro sul campo, così ho deciso di lasciarlo solo, a un certo punto, in questi incontri: faccia a faccia con l’altro, usando la forma dell’autobiografia. Non tutte queste biografie sono belle da un punto di vista della forma, ma ho scelto di non correggerli per restituire l’essenza di questa esperienza che indaga le diverse possibili modalità di convivenza.

“Dobbiamo ripartire dal dato di fatto che la purezza è inesistente: le persone sono costantemente coinvolte in incontri e scontri che modellano le culture”

In questi ritratti, che peso ha lo sfruttamento del lavoro migrante e di persone prive di diritti?
AS Esplorare la relazione tra lavoro precario e migrazione ci aiuta a vedere che le differenze tra lavoratori sfruttati -per esempio, tra un lavoratore migrante e un precario nato in Italia- si stanno assottigliando. Nascono così nuove forme di solidarietà e mutualismo tra lavoratori uniti contro lo sfruttamento e sono speranzoso che un cambiamento possa venire proprio dalle “nostre braccia”: di tutti noi lavoratori. Le norme ideate per gestire i flussi migratori nella “fortezza Europa” sono diventate lo strumento attraverso cui garantire una domanda clandestina di lavoro meno qualificato e avere a disposizione lavoratori privi di diritti, e la generale precarizzazione del lavoro si sta trasformando in uno stato di precarietà esistenziale. Emblematico è il caso delle badanti. Precarie per eccellenza, poiché dipendono dalla vita delle persone di cui si prendono cura, sono delle lavoratrici invisibili. Secondo l’Istituto italiano di ricerche sociali, di 600mila badanti immigrate (che sfuggono alle statistiche Inps), solo il 40% ha un contratto regolare. I migranti continuano a vivere, anche se, a causa dello sfruttamento del lavoro, sono passibili di uscire dalla condizione di persone. Per impedirlo, possiamo dare loro dei volti e accoglierne le storie.

Tu sei anche direttore editoriale della collana “Biblioteca antropologia” della casa editrice Meltemi. Qual è la responsabilità dell’editoria e dei mezzi di comunicazione in questo racconto dell’altro?
AS Abbiamo il compito di decostruire il discorso dominante che sta individuando nei migranti il capro espiatorio dei nostri problemi. Anche per questo ho scelto di lavorare con piccoli editori indipendenti, che pubblicano meno libri in un anno, ma li tutelano e li accompagnano, perché sono progetti in cui credono. L’impegno dell’editoria indipendente è fondamentale per sostenere un discorso che abbia uno spessore umano, culturale e sociale in un mondo polifonico e polimorfo.

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