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Diritti / Intervista

Elisa Pazé. Anche i ricchi rubano

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Alla base dei delitti dei ceti più abbienti c’è una motivazione economica, ma l’ordinamento tende a perdonarli. Il racconto dall’interno del magistrato della Procura di Torino

Tratto da Altreconomia 230 — Ottobre 2020

“Il diritto penale ha sempre avuto un occhio di riguardo per i ricchi”, spiega Elisa Pazé, magistrato presso la Procura di Torino, nel suo agile volume “Anche i ricchi rubano” (Edizioni Gruppo Abele, 2020). Un esempio: “In passato per alcuni reati la differenza di trattamento era macroscopica: i poveri che regolavano i conti fra di loro rispondevano di rissa, i nobili di duello, punito più blandamente e sopravvissuto fino al 1999”. Occupandosi proprio di reati economici, Pazé ricostruisce articolo per articolo le “ingiustizie nella legge e nella sua applicazione”, ne evidenzia gli stretti legami con il modello economico dominante, riflette sul ruolo del giudice. Fumo negli occhi per i forcaioli che invocano “tolleranza zero” verso gli ultimi.

Dottoressa Pazé, nel libro affronta il tema del “populismo penale” e ne sottolinea la stretta connessione con il populismo politico e le politiche liberiste. Perché uno ha un “disperato bisogno” dell’altro?
EP L’espressione “populismo politico”, in voga da tempo ed entrata a fare parte del linguaggio comune, è riferita di norma a un richiamo spregiudicato alla volontà popolare, per la quale si rivendica la possibilità di esprimersi in via diretta, senza ricorrere alle mediazioni politiche tradizionali. Nel pensare e pretendere maggiori spazi e nuove forme di democrazia ovviamente non c’è nulla di male, anzi. Il punto problematico è però che il “popolo” a nome del quale si parla è costituito da diverse classi sociali portatrici di interessi diversi -semplificando, ricchi, poveri e cosiddetto ceto medio-, e pensare di poterli rappresentare tutti contemporaneamente è impossibile.

“Ci sono tanti modi per fare finta di volere perseguire un reato. Si possono anzitutto scrivere le norme in modo contorto, rendendole così di difficile applicazione”

Per unire le varie componenti intorno a una bandiera comune si è allora invocata, perlomeno da una parte dei movimenti considerati populisti, una lotta senza quartiere alla microcriminalità e, con essa, specialmente agli immigrati extracomunitari in fuga dalle guerre e dalla fame, individuati come potenziali delinquenti. E qui entra in gioco il “populismo penale”, termine coniato negli ultimi anni da alcuni giuristi per indicare politiche fortemente repressive, che hanno condotto ad un innalzamento abnorme delle pene, anche nei minimi, nei confronti dei reati di strada. Gli allarmi sono ingiustificati perché le statistiche rivelano che furti, rapine e scippi sono in calo. Soffiando sul fuoco della paura però si ottiene il duplice risultato di aggregare persone, che di per sé si troverebbero su fronti contrapposti, contro un comune nemico, e di fare dimenticare quelli che sono i problemi veri per la maggior parte della popolazione: la mancanza di un lavoro, le pensioni basse, i tagli alla sanità e ai servizi sociali, l’inquinamento, la qualità scadente dell’istruzione. Problemi che sono causati non dagli illeciti dei poveri ma da quelli dei ricchi e dalle politiche liberiste degli ultimi decenni.

Il volume passa in rassegna i furti, le truffe e gli omicidi dei ricchi, messi al riparo da quelle che lei definisce “imposture normative”. Quali sono dal suo punto di vista le principali “imposture” a danno della collettività del nostro Paese?
EP Ci sono tanti modi per fare finta di volere perseguire un reato, lasciando in realtà impuniti i suoi autori. Si possono anzitutto scrivere le norme in modo contorto, rendendole così di difficile applicazione. Penso ad esempio a quella sul delitto di inquinamento ambientale, introdotto nel nostro codice nel 2015, che descrive la condotta (“Compromissione o deterioramento significativi e misurabili” delle acque, dell’aria o di porzioni estese e significative del suolo o del sottosuolo, oppure di un ecosistema) in termini talmente generici da prestarsi nelle aule giudiziarie a mille questioni e impugnazioni.

“L’unica vera prevenzione allora non è investire per costruire nuove carceri, riempiendole di poveracci, ma mettere in atto politiche sociali per casa, lavoro, servizi”

Ancora, per alcune categorie di delitti tipici della “gente perbene” (la bancarotta, il falso in bilancio e molti altri) sono previste speciali circostanze attenuanti che consentono di abbassare le pene anche quando i fatti sono obiettivamente gravi, così da conseguire i benefici che evitano l’ingresso in carcere. In certi casi poi sono stati escogitati meccanismi che consentono agli stessi potenziali delinquenti di alzare l’asticella della condotta incriminata: nell’usura la percentuale al di sopra della quale il tasso di interesse si considera usurario è di fatto fissata dagli stessi istituti di credito perché il calcolo si fa sulla base del tasso medio da loro praticato. Per molti reati tributari invece ci sono soglie di punibilità alte, per cui chi evade al di sotto di una certa somma non è perseguibile e, se viene scoperto, va incontro solo a sanzioni amministrative. Ma non pagare le tasse conviene anche agli evasori medio-grandi, stanti i controlli ridotti e tardivi.

2002 l’anno in cui in Italia il reato di falso in bilancio è stato sostanzialmente depenalizzato. Nel 2015, per rimediare, le soglie di punibilità sono state cancellate e le pene sono state alzate. Ma il nuovo testo della norma, spiega Elisa Pazé, è un “gran pasticcio”

A proposito di evasione fiscale, lei sostiene che il principio della “libertà di stabilimento” di fatto ha consacrato gli interessi dei grandi gruppi industriali. In che senso?
EP La “libertà di stabilimento” si riferisce alla possibilità per le imprese di collocare la propria sede legale in uno Stato diverso da quello in cui si svolge l’attività produttiva e in cui si percepiscono i profitti. Si tratta in genere di sedi fittizie, con pochi dipendenti, nelle quali si custodiscono alcuni documenti e ogni tanto si tiene strumentalmente qualche riunione. La ragione di questa prassi, sempre più frequente, è nota: fissando la sede in un “paradiso fiscale” si pagano meno tasse e si rendono gli accertamenti più difficili.

Ciò nonostante, il principio della libertà di stabilimento è stato riconosciuto, oltre che dalla Corte di giustizia europea, dalla Corte di cassazione, con la motivazione che è ben possibile perseguire vantaggi diversi da quelli fiscali, come ad esempio attrarre investimenti. Si è scatenata così una guerra fra Stati che vede alcuni Paesi, anche europei, nel tentativo di accaparrarsi il maggior numero possibile di contribuenti, fare condizioni di favore ai grandi gruppi industriali, non solo applicando aliquote bassissime, ma adottando una legislazione antinfortunistica meno rigida. Il risultato è che le politiche economiche, sottratte di fatto ai governi nazionali, sono decise dalle multinazionali.

Anche i giudici -come lei scrive, richiamando una recente sentenza della Corte di cassazione in materia di licenziamento- paiono conformarsi all’ideologia del profitto. Quale è il ruolo della magistratura nell’affermazione (o meno) di un modello economico diseguale?
EP La sentenza della Corte di cassazione cui lei fa cenno, modificando l’orientamento precedente, ha sostenuto che il licenziamento può essere giustificato dall’obiettivo di ridurre i costi di gestione, anche se l’impresa non si trova in una situazione di difficoltà economica e vuole solo aumentare il margine di profitto. È un’argomentazione che non tiene conto dei principi che informano la Costituzione (artt. 1 e 35) e la legislazione in materia del lavoro, nella quale si pongono limiti alla libertà di licenziamento a tutela del lavoratore, il quale si trova in una posizione di debolezza contrattuale. In ogni caso, per fortuna, nella magistratura ci sono sensibilità diverse e, se ci sono sempre stati giudici che hanno interpretato e applicato la legge in modo retrivo, altri si sono distinti per avere inventato e protetto nuovi diritti.

Così è stato -come lei scrive- alla fine degli anni 60, allorchè la legge, da “usbergo delle classi dominanti”, era diventato “motore di cambiamento sociale”. Oggi quali sono le prospettive per una nuova stagione del diritto?
EP Sotto il profilo della politica criminale si dovrebbe porre con forza il tema del riproporzionamento delle pene, e qui si torna al discorso iniziale sul populismo penale. Non è ragionevole reprimere i reati di strada in misura abnorme, anche quando si tratta di episodi bagatellari che creano poco danno, come i furti nei supermercati.

In ogni caso -innesto una ulteriore riflessione- pensare di contrastare la criminalità solo con lo strumento penale è miope. Chi ruba spinto dalla fame, appena uscito dalla prigione, ricomincerà a commettere reati. L’unica vera prevenzione allora non è investire per costruire nuove carceri, riempiendole di poveracci, ma mettere in atto politiche sociali per casa, lavoro, servizi. C’è però il grosso problema connesso dell’evasione fiscale, che azzoppa la nostra economia e contribuisce a mantenere gli squilibri. Bisognerebbe iniziare a ragionare su un sistema tributario unitario, e il più possibile progressivo, a livello europeo, tassando allo stesso modo i redditi da impresa e quelli da capitale. Questa prospettiva però presuppone un’unità di vedute fra governi che in questa fase, caratterizzata da una visione prettamente economicista, appare difficilmente realizzabile.

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