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America Latina in movimento

Pubblichiamo integralmente l’articolo che Aldo Zanchetta ha scritto per l’Annuario geopolitico della pace 2006 (“Tra verità e menzogna”, Altreconomia/Terre di mezzo editore). Un intervento di Zanchetta, animatore di numerose esperienze di solidarietà con l’America Latina, studioso e attento osservatore dei mutamenti politici, economici e sociali in corso nel continente latinoamericano, sulla fine dell’“anno elettorale” latinoamericano è sul numero di dicembre di Ae.

C’è in giro una grande euforia nelle varie componenti del movimento antisistemico: l’America Latina è in movimento e, come ha detto l’ intellettuale pakistano Tariq Ali, è l’unico posto del mondo dove si tenta di uscire dal liberismo. Affermazione senz’altro vera ma da non sopravvalutare. 

di Aldo Zanchetta, presidente della Fondazione “Neno Zanchetta”

Potremmo affiancarle quella di un leader di movimenti sociali fra i più solidi e attenti, Joao Pedro Stedile, che nell’estate di quest’ anno, in un’intervista al settimanale socialista britannico “Socialist worker”, ha detto: “Constato che in Europa la gente parla dei cambiamenti che stanno avvenendo in America Latina. Sì, ci sono cambiamenti in atto, però non sono così profondi come la gente immagina”.

Un esempio di cosa immagina la gente lo traggo da un fatto banale (ma non tanto): al Forum policentrico di Caracas, nel gennaio di quest’anno, una grande Organizzazione non governativa internazionale ostentava grandi striscioni con le foto dei “presidenti di sinistra”: Lula, Castro, Chávez, Morales, Bachelet, Tabaré Vazquez, Kirchner. Altri cronisti frettolosi hanno successivamente inquadrato a sinistra il neopresidente panamense Torrjios, solo perché figlio di un grande padre, e anche sperato di poter aggiungere in Perù il militare Ollanta Humala, figura ancora non chiara, e che per pochi voti però non ce l’ha fatta. Una compagnia eterogenea, che solo il desiderio di credere (e far credere) che da qualche parte nel mondo ormai si stia andando decisamente a sinistra, fa accomunare sotto una unica etichetta. Forse per tirarsi su il morale. Ma questa ammucchiata di nomi non favorisce un’analisi seria e può generare illusioni con successive delusioni e depressioni… Ed allora torno di nuovo a Stedile che, poco dopo l’ intervista citata, interpellato sull’argomento di quali Paesi si muovessero verso politiche antineoliberiste, riportando una “classificazione” fatta all’interno del movimento Via Campesina, ha classificato i Paesi latinoamericani in tre categorie: un gruppo di Paesi progressisti, uno di Paesi moderati e infine uno di Paesi conservatori. Nel primo erano inclusi, ovviamente, Cuba, Venezuela e Bolivia. Nel gruppo dei moderati Via Campesina ha inserito Brasile, Argentina e Uruguay. Nel terzo la Colombia, il Cile, l’Uruguay. Insistere infatti a includere il Cile nel novero dei Paesi progressisti o anche moderati è frutto della sindrome del pallottoliere progressista ma non di un’analisi minimamente obiettiva. Come la pervicacia a inserire fra i primi il Brasile di Lula.

Fatta questa necessaria premessa tentiamo di tracciare un quadro più preciso.



Una rapida panoramica


Sulla base della classificazione di Via Campesina possiamo vedere come, a esclusione di Cuba, i Paesi progressisti e quelli moderati citati siano tutti nel subcontinente meridionale, cioè nell’America del Sud.

Dovendo tracciare un rapido panorama della situazione attuale dell’America Latina, è perciò utile dividere l’intera area in cinque zone: il Messico, nel subcontinente Nord, il Centro America, i Caraibi, i Paesi andini e quelli del Mercosur, il mercato comune che riuniva inizialmente quattro Paesi, oggi cinque, e destinato forse ad allargarsi.

Del Messico abbiamo trattato ampiamente nell’Annuario geopolitico della pace dello scorso anno, e quindi daremo solo alcuni cenni relativi ai fatti nuovi in corso. Del Centro America, tuttora sotto forte tutela statunitense, vengono analizzati in altra parte due Paesi, il Guatemala e l’Honduras, e ciò che viene detto per loro vale in buona parte per i restanti: il soffocante controllo statunitense continua, anche se alcuni valorosi movimenti sociali tentano di organizzare una resistenza. Ma capovolgimenti di fronte a breve non sembrano ipotizzabili. I Caraibi, con l’eccezione di Cuba, continuano a far parte, come i precedenti, del patio trasero, ovvero del cortile di casa degli Usa, ma con Portorico, dove si fa più forte l’aspirazione indipendentista, e con Haiti, Paese dimenticato che soffre l’ambigua occupazione militare di un contingente inviato dall’Onu, di fatto ancora una volta portatrice di interessi statunitensi. Il controllo stretto dei Caraibi, come dimostrano le varie basi statunitensi ivi installate, è strategico per proseguire l’isolamento di Cuba e per alitare sul collo del riottoso Venezuela. Le novità interessanti in atto, e sulle quali ci intratterremo, sono localizzate nell’America del Sud, con una certa differenziazione fra zona andina, la più calda, e la zona restante, la più ampia, economicamente assai più importante, se si eccettuano le grandi riserve energetiche dei Paesi andini (Venezuela e Bolivia, ma anche Ecuador e Colombia).



Uno scenario sudamericano in movimento

Lo scenario politico latinoamericano sta evolvendo con profondi e rapidi mutamenti, alcuni così veloci da rendere probabilmente superate alcune considerazioni qui fatte nel breve tempo della stampa del volume. Così i risultati della prima tornata delle elezioni brasiliane mettono il presidente Lula in posizione certamente indebolita anche se acquisirà, sebbene meno facilmente del previsto, la rielezione. E il secondo turno potrebbe aprire una crisi imprevista solo tra poche settimane. Il suo indebolimento infatti si ripercuoterà sullo schieramento della resistenza a Washington, concentrata in cinque Paesi, di cui il Brasile è certamente il più forte. Molti dei problemi in evidenza hanno radici lontane e stanno emergendo grazie a circostanze oggi favorevoli, quali il problema indigeno e il problema dell’appartenenza della terra, altri sono nuovi, come appunto il consistente movimento di resistenza alla tradizionale interferenza statunitense che vede uniti sia Paesi sopra classificati progressisti, sia Paesi classificati moderati. Inoltre altre due elezioni imminenti potrebbero portare mutamenti nel panorama tracciato, quelle venezuelane e quelle ecuadoriane. Cerchiamo di evidenziare alcune delle novità sopra citate:

– la bocciatura dell’Alca, l’Area di libero commercio delle Americhe, progettata e fortemente voluta dal governo statunitense – ferita gravemente anche nella versione light cioè ridimensionata rispetto alla versione originale per renderla meno sgradita – nel corso del Vertice di Mar del Plata del maggio 2005, cui hanno partecipato tutte le Nazioni latinoamericane e del Caribe, Cuba esclusa d’autorità, assieme a Stati Uniti e Canada. Realismo vuole che si dica che la bocciatura è avvenuta ad opera dei quattro Paesi del Mercosur di allora più il Venezuela (la Bolivia era ancora governata da forze di destra), mentre gli altri erano più possibilisti o addirittura favorevoli al progetto.

– L’elezione di Evo Morales alla presidenza della Bolivia (dicembre 2005), con la rapida sequenza di decisioni interne e internazionali rilevanti, quali la convocazione dell’Assemblea costituente destinata a elaborare una nuova Costituzione tale da riequilibrare la presenza delle componenti etniche del Paese; la nazionalizzazione delle risorse energetiche, con le sue ripercussioni subcontinentali; la riforma agraria e altre apparentemente minori ma destinate a modificare in profondità il Paese ed a marcarne a livello statuale la multietnicità.

– L’effetto trascinatore che l’elezione di un presidente indigeno, e quindi portatore di un’altra cosmovisione, potrà avere in altri Paesi a maggioranza indigena (elezioni in Ecuador, a novembre 2006; in Guatemala nel 2007 o forse in quelle del 2011). Questa elezione ha dinamizzato i movimenti indigeni latinoamericani, e in particolare quelli andini. Così a luglio si è costituita la coordinadora dei popoli indigeni di Bolivia, Ecuador, Perù, Cile e Colombia, che ha subito chiarito i propri obiettivi radicali di ricercare con vigore la riforma delle Costituzioni per rendere i popoli indigeni parte integrante, con la propria cultura, dei relativi Stati nazionali. E mentre chiudiamo questo testo sta per aprirsi a La Paz l’incontro dei popoli indigeni del continente, convocato dal loro presidente onorario Evo Morales.

– La firma fra Venezuela, Bolivia e Cuba del primo tentativo di concretizzazione dell’Alba, l’Alternativa bolivariana per l’America, cioè un progetto di integrazione alternativo all’Alca e ai vari Tlc, immaginato e proposto dal dinamico presidente venezuelano Chávez. L’Alba – a differenza dell’Alca, che è basata essenzialmente su un’integrazione puramente economica, o meglio sul libero mercato a vantaggio delle multinazionali più forti – cerca di valorizzare le complementarietà, e sopratutto di realizzare accanto a quella economica un’integrazione politica e sociale.

– L’ ingresso in un Mercosur – il Mercato comune dei Paesi del Sud (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay) -, da tempo in crisi, di un Venezuela portatore di proposte economiche e politiche dirompenti, come l’integrazione energetica avente come asse portante l’oleodotto dal Venezuela all’Argentina, lungo 7mila km (forse 10mila, a seconda del reale tracciato), cui si aggiunge la marcia di avvicinamento allo stesso Mercosur da parte della nuova Bolivia. Il Mercosur è uscito rinforzato dal vertice di Cordoba in Argentina del luglio 2006, anche se non dobbiamo nasconderci la persistenza delle ragioni che lo avevano messo in crisi: il predominio delle imprese brasiliane in Argentina e di quelle di entrambi i Paesi nei due soci più deboli. È però certo che l’ingresso del Venezuela non si limiterà a perseguire l’obiettivo di una migliore integrazione economica, bensì quello di una graduale trasformazione in un Alba più grande, con le conflittualità che ciò comporterà, in particolare con il Brasile che, ancorché sotto la guida di Lula, non nasconde velleità di potenza regionale. È sua, infatti, la proposta del megapiano Iirsa (Integrazione interregionale delle infrastrutture dell’America del Sud), più mirato a potenziare il libero mercato (accesso alle risorse e movimento delle merci) che non a soddisfare le attese dei popoli.

– Le elezioni colombiane e peruviane che hanno visto, nonostante la sconfitta, la nascita a sinistra di nuove forti concentrazioni elettorali, attorno a Gaviria in Colombia e ad Ollanta Umala in Perù, con scenari nuovi e anticipatori di cambiamenti possibili in Paesi già controllati da vicino dagli Usa.

– La cacciata del presidente Gutierrez in Ecuador (aprile 1994) e la pronta riorganizzazione del movimento indigeno, il più forte del continente, rimasto intrappolato in una negativa esperienza di governo nei primi mesi di questa presidenza, che sta segnando un susseguirsi di lotte qualificanti come il blocco della firma del Tlc con gli Stati Uniti, firmato invece da altri due membri del Can – la Comunità andina di nazioni – e cioè Colombia e Perù; una firma che ha spinto il Venezuela ad uscire dal trattato stesso, ponendo in crisi il Can, ma anche l’opposizione all’allargamento della base statunitense di Manta ed addirittura a non consentire il rinnovo dell’ impegno.

– Le elezioni messicane dove, dopo due mesi di incertezze e di battaglie legali, l’Istituto federale elettorale, chiaramente controllato dall’attuale presidenza, ha decretato la vittoria, contestata, del candidato della destra Felipe Calderon. Qui la crisi della democrazia formale, del resto ovunque latente, è esplosa in modo evidente aprendo la via a una più profonda spaccatura del Paese e a nuove dinamiche non chiaramente prevedibili nei modi e nei tempi, ma difficilmente soffocabile nel medio termine. Rispetto alla trattazione fatta nel precedente Annuario, cui rimandiamo, non si è verificata la schiacciante vittoria di Lopez Obrador, alla cui sconfitta ha contribuito qualche dubbia operazione di conteggio dei voti, ignorata del tutto dagli osservatori della Comunità europea, che sta dando luogo a denunce in seno al Parlamento europeo. Anche l’altra campagna degli zapatisti non ha sortito, a oggi, gli effetti sperati, ma è certamente destinata a essere rilanciata. Così nei giorni scorsi, una oceanica manifestazione popolare ha nominato “presidente legale” Lopez Obrador, che ha preannunciato una presidenza itinerante per il Paese, dai contenuti ancora non chiari. Quando il libro sarà uscito, questa iniziativa, di cui non è facile prevedere una convergenza con l’iniziativa zapatista, potrà risultare ridimensionata o, viceversa, infiammata.
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Due vie alternative per l’allontanamento dalle mire statunitensi

L’ autorevole “New York Times”, in un editoriale del giugno scorso, ha rilevato come almeno nel subcontinente meridionale la dinamica attuale si giochi fra i Paesi che esercitano politiche popolari di uscita dal sistema neoliberista (Venezuela, Bolivia, forse in futuro Ecuador, oltre naturalmente alla storica trasgressiva Cuba), e i Paesi dove il neoliberismo continua a predominare come modello economico, pur in una prospettiva di indipendenza nazionale. Fra questi certamente il Brasile di Lula (quello del suo rivale Alckim sarebbe ben diverso invece), che accanto a una politica internazionale più distaccata dagli Stati Uniti ha invece internamente consolidato le politiche liberiste di Cardoso, e l’Argentina dove il presidente Kirchner punta su un modello capitalista però con forti connotazioni nazionaliste unito a una più vigorosa difesa dei diritti umani. Se l’insuccesso elettorale di Lula nel primo turno non fosse cancellato da una netta vittoria nel secondo, le speranze dei movimenti popolari si orienterebbero ancor più decisamente in direzione di Chávez, che verrebbe però a perdere un prezioso punto di riferimento internazionale. A parte questo fatto nuovo, ai citati avvenimenti sfavorevoli per gli Stati Uniti, questi stanno reagendo sul piano politico ed economico premendo sui Paesi più deboli sia con la stipula di trattati di libero commercio bi o plurilaterali, sia con l’installazione di nuove basi militari (Paraguay, Caraibi) e con significative manovre militari congiunte con vari Paesi meno infedeli. Per quanto riguarda i trattati commerciali, a quelli da tempo firmati col Messico (Nafta) e col Cile, si aggiungono, come detto, i più recenti con Colombia, Perù e Centro America (Cafta); sarebbe destabilizzante per lo stesso Mercosur il concretizzarsi dei colloqui in corso con l’Uruguay per un accordo di libero commercio con questo Paese (anche se Tabaré Vazquez, dopo una lunga altalena, ha smentito recentissimamente questa intenzione), mentre l’altro anello debole del Mercosur, il Paraguay, ha accettato una base statunitense sul proprio territorio, in zona strategicamente importante, vicino al Sud della Bolivia, che da tempo minaccia la secessione dal Paese, e allo strategico bacino acquifero del Guaran a cavallo della triplice frontiera Argentina, Brasile, Uruguay.

Non è perciò da sottovalutare la possibilità di un recupero di iniziativa della politica statunitense a partire da alcuni capisaldi come il forte legame politico e militare con la Colombia (potenziale centro destabilizzatore dell’intera turbolenta regione andina), i permanenti buoni rapporti col Cile, o grazie al sorgere di conflitti locali opportunamente alimentati e che potrebbero fornire le giustificazioni per un intervento diretto.

Un dilemma storico ancora attuale: integrazione latinoamericana o dominio Usa?

Nel 1823 l’allora presidente degli Stati Uniti Monroe con l’enunciazione “l’America agli americani” dava vita alla dottrina che da lui ha preso il nome e che sottendeva la decisione degli Stati Uniti di voler soppiantare Inghilterra, Spagna e Francia nel controllo politico, finanziario e commerciale dei Paesi dell’America Latina. Questa dottrina fu ripresa e attuata più rudemente da Teodor Roosvelt, nel 1904, con la politica del big stick, ovvero del “grosso bastone”, necessario per mantenere l’ordine nel “cortile di casa” ogni qual volta venisse “turbato” (interventi a Cuba nel 1898-1901, 1906-1909, 1917-1923 ; Repubblica Dominicana 1904-1924; Nicaragua 1911-1932; Haiti 1915-1935…). Le cose dovevano andare avanti successivamente fra bastone e carota, e coinvolgere, seppur con forma diversa, tutta l’America Latina. A questa politica di sudditanza, Simone Bolivar, el libertador, già nel 1815 ne contrapponeva una diversa con la celebre frase: “Gli Stati Uniti sembrano destinati dalla Provvidenza a piagare con la fame e la miseria l’America intera in nome della libertà”. Egli ben aveva compreso che solo una stretta integrazione fra i Paesi latinoamericani avrebbe potuto arrestare l’invadenza statunitense. Questa è la presa di coscienza che Che Guevara aveva rinverdito e che ha trasmesso ai movimenti sociali odierni, nonché fatta propria dal progetto bolivariano di Chávez. Queste due alternative si sono riproposte negli anni recenti con il progetto statunitense dell’Alca e, successivamente, con la risposta chavista dell’Alba, di cui abbiamo parlato sopra.



Quale integrazione?

Questa sembra oggi la domanda chiave. Senza integrazione non c’è possibilità di libertà reale e indipendenza per i Paesi latinoamericani, né di fronte agli Stati Uniti né di fronte all’Europa oggi, e della Cina, forse, domani. Esistono però vari modi e varie logiche per integrarsi. Il Brasile è senz’altro la “potenza regionale” dell’area e, fin dall’indipendenza, questa visione è stata coltivata attivamente. Questo naturalmente crea qualche problema con i propri vicini, in particolare l’Argentina che è stata a lungo il Paese industrialmente più avanzato del subcontinente e orgogliosa di questo primato. Ma per sfuggire all’egemonia brasiliana, che in una certa misura si è concretizzata non senza malumori anche all’interno del Mercosur, l’Argentina deve aggregarsi in una alleanza con altri Paesi. Da qui il particolare feeling che Kirchner e Chávez sembrano avere. In questa logica infatti si può forse comprendere meglio l’avvicinamento fra Venezuela e Argentina, che pure hanno progetti economici e politici interni assai diversi fra loro, e il tentativo di autodifesa di Uruguay e Paraguay, o dello stesso Cile, con le ricordate aperture agli Stati Uniti. L’integrazione quindi è necessaria ma può essere concepita solo in funzione essenzialmente economica, e in questo caso con predominio del Brasile, stemperato ma non cancellato dal potere energetico di Venezuela e Brasile; oppure politica, sociale e culturale come i tre Paesi dell’Alba sembrano volere. Da qui la complessità dei problemi e delle alternative e quindi delle dinamiche in atto in cui districarsi. Non basta quindi, per l’America del Sud, prendere le distanze dagli Stati Uniti o dal consenso di Washington imposto dall’Fmi e dalla Banca mondiale, ma sapere quale modello di integrazione subcontinentale scegliere fra i due citati.



Il socialismo del secolo XXI

A Caracas, in occasione del Forum sociale mondiale policentrico del gennaio scorso, Chávez ha lanciato la provocazione del socialismo del secolo XXI che ha infiammato il dibattito nei movimenti sociali. L’approccio di Chávez al tema è stato coraggioso, stimolante e non dogmatico: “credo che debba essere un socialismo nuovo – ha detto -, con basi fresche, adatto alla nuova era che sta appena cominciando. Per questo mi sono azzardato a chiamarlo socialismo del secolo XXI, come progetto. Credo che esso sia un obiettivo, una sfida… non si tratta di cercare un illuminato perché ci prepari un modello che tutti poi copieremo. Sarebbe assurdo, costruiamolo a partire dalle nostre radici, dai nostri aborigeni, dalle comunità del Paraguay o del Brasile, dal socialismo utopico di Simon Rodriguez, dalla proposta di Bolivar di libertà e uguaglianza, dalla proposta di Artigas, il grande uruguayano, di invertire l’ordine della giustizia, eliminando i privilegi”. Il tema è grande e stimolante e oltre ai nuovi movimenti sociali ha infiammato anche i nostalgici di forme dogmatiche di pensiero, aprendo un altro bivio davanti al quale scegliere. Un tema che farà discutere in futuro e su cui non c’è ora spazio per approfondimenti.



Una sintesi?

Volendo riassumere la attuale situazione latinoamericana, questa è chiaramente in movimento nel subcontinente meridionale e, forse, in Messico. Movimento che nel Sud vede una convergenza positiva fra Paesi moderati e progressisti nel graduale sganciamento dalle politiche statunitensi per la regione, che, per essere durevole, deve però concretizzarsi in una effettiva integrazione dei Paesi del subcontinente. Questa integrazione non è però semplice, sia per la continua influenza statunitense in alcuni dei Paesi della regione, sia per la divergenza delle dinamiche in atto, cioè il perdurante neoliberismo, anche se non di stretta osservanza, dei Paesi moderati ed il bolivarismo o socialismo del secolo XXI di quelli più radicali. Con la grande incognita del secondo turno delle elezioni brasiliane e, probabilmente inferiore, di quelle venezuelane, che potrebbero spostare gli equilibri pur faticosi ora raggiunti. Senza dimenticare, prima di finire, di sottolineare l’attuale dinamismo delle popolazioni indigene, fortemente presenti in alcuni Paesi, e quindi del ruolo che potranno giocare nello spostamento degli equilibri e nell’apporto di contributi di pensiero preziosi che potranno dare.

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