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Terra e cibo / Attualità

Dove si vive la tavola. Un viaggio alla scoperta dell’osteria italiana

L'osteria Oltrevino a Parma. È uno dei soci fondatori della rete “OstiNati”, i locali del buon bere nella città emiliana nata il primo ottobre 2019 - © Diletta Sereni

Prendere il territorio e reinterpretarlo, disegnando un’idea nuova di cucina. Da Parma a Ruvo di Puglia (BA), crescono gli spazi d’accoglienza e relazione che allo star system degli chef preferiscono le reti. Siamo andati a scoprirli

Tratto da Altreconomia 220 — Novembre 2019

È lunedì e mancano pochi minuti a mezzogiorno. Mentre Dino stende la sfoglia, Cristina affetta i funghi trovati dallo zio, che è un cercatore munito di regolare patentino. Arrivano dall’Altopiano delle Pizzorne, una quindicina di chilometri dell’Osteria di Lammari, in Lucchesia. Con la pasta fresca Dino Lera preparerà degli spaghetti alla chitarra, mentre Cristina Taddeucci farà rosolare e insaporire il sugo. A partire dalle dodici e trenta i clienti cominciano a entrare nella sala da pranzo del locale. “I coperti sono ventiquattro, ma di solito mi fermo a una ventina, per poter garantire cura ad ognuno di loro” racconta Lera. Il bar osteria è un’attività della sua famiglia dal 1895. Lui c’è nato dentro, spiega. Nel 1997 ha affiancato il padre nella gestione. “Dal 2001 il locale è mio: all’inizio mi sono dedicato alla cantina, ne ho fatto un’enoteca. Dal 2010 abbiamo aperto anche la ristorazione. Ci premia la scelta delle materie prime”.

Verdure e ortaggi sono locali, coltivati con metodo biologico e biodinamico, ma il menù è arricchito anche di eccellenze scovate in Italia e all’estero. “Un esempio: mi piace raccontare ai clienti che qui il baccalà non è norvegese, ma usiamo quello storico di Lucca, che è canadese, il San Giovanni, che va cucinato in umido o grigliato, come da tradizione, ma non può essere fritto” racconta Dino, che in sala gira tra i tavoli, sa sempre consigliare il vino giusto per accompagnare il pasto e ama intrattenersi con i clienti. Lera fa l’oste, insomma, e dal 2019 il suo locale è recensito nella guida “Osterie d’Italia” di Slow Food, arrivata alla trentesima edizione. L’occasione per tracciare un bilancio con Marco Bolasco, che insieme a Eugenio Signoroni cura la redazione del sussidiario del mangiarbere all’italiana, un filo rosso che lega 1.656 locali in tutto il Paese: “L’osteria italiana non è il posto dove si mangia cucina tradizionale, ma un luogo dove si vive la tavola. È tempo di smetterla di parlare dei piatti, per concentrarsi sul pasto, che è convivio: è molto di più rispetto a quel che si mangia, e va vissuto nella sua interezza” spiega Bolasco. L’osteria, racconta, è lo spazio dell’accoglienza, della relazione, “dell’’ospitalità, che è al cuore del modo italiano di fare ristorazione, ciò che chiede e cerca chi dall’estero viene nel nostro Paese”.

Quando uscì la prima edizione della guida, alla fine degli anni Ottanta, nella società era forte una distinzione tra due modelli, quello dell’alta cucina -sofisticata, cerebrale, evoluta, sperimentale- e quella tradizionale, che era considerata “di basso livello, poco interessante” spiega Bolasco. Oggi che gli chef sono protagonisti in tv, fanno parte dello star system, sono naturali influencer, l’oste emerge come custode del territorio. “È un attore impegnato nella costruzione di piccole economie di scala che funzionano. Al centro del suo lavoro ci sono le relazione che è in grado di costruire con i produttori locali, la capacità di stimolarne e orientarne il lavoro, garantendo l’acquisto e coinvolgendoli sul piano della comunicazione all’interno dei locali”. All’Osteria di Lammari è possibile acquistare le bottiglie dei vignaioli lucchesi della rete LuccaBiodinamica, le acciughe liguri, le verdure sott’olio, la pasta secca di Gragnano. Si valorizza anche così il lavoro di ricerca dell’oste.

“Le Osterie promuovono il territorio facendo cultura, un termine che ho quasi timore a usare, ma che rivendico. Si fa con l’esempio, creando fiducia” – Mauro Vielmi

Una ricerca che parte dalle materie prime e ne tocca -necessariamente- anche la trasformazione in cucina. Come racconta Mauro Vielmi, che in Valle Camonica guida la cucina del ristorante-locanda “Da Sapì”, a Esina (BS): “Nella cucina moderna anche i ristoranti di alta cucina si approcciano a quello che noi facciamo da sempre, mentre prima era più comune che lavorassero con alcune distribuzioni di prodotti di alta qualità, ma industriali. Le Osterie promuovono il territorio facendo cultura, un termine che ho quasi timore a usare, ma che rivendico: facciamo capire alle persone che vengono da noi che ciò che mangiano sono prodotti allevati o coltivati in un certo modo, sani. La cultura si fa con l’esempio, e creando fiducia” sottolinea Vielmi. Che prende il territorio e lo reinterpreta, non ama chi tesse le lodi del suo locale per i casoncelli (pasta ripiena, tipica della valli bresciane) ma disegna una sua idea di cucina. I tortelli sono ripieni di Salmerino alpino, gli gnocchi di rapa rossa con caprino e kimci (verdure fermentate), le verdure autunnali presentate come una tartare. “Per me è fondamentale alimentare microeconomie in una zona disagiata qual è la Valle Camonica. È un valore morale del mio lavoro di oste” sottolinea Vielmi. Sulla guida Osterie d’Italia “Da Sapì” sfoggia la Chicciola (massimo riconoscimento), la bottiglia (per la carta dei vini) e una fetta di formaggio, ad indicare una “carta” di qualità, fortemente improntata al territorio.

A Ruvo di Puglia (BA) i fratelli Francesco e Vincenzo Montaruli sono gli osti di “Mezza Pagnotta”, e definiscono la propria cucina etno-botanica, figlia di “un messaggio che non studi sui libri, ma abbiamo fatto nostro grazie all’ascolto che abbiamo dedicato ai nostri antenati” come racconta Francesco. La loro cucina è legata all’utilizzo delle piante spontanee, raccolte sull’Altipiano delle Murge, e alle biodiversità orticole pugliesi, censite grazie a un progetto coordinato dall’Università di Bari (biodiversitapuglia.it). “Vogliamo ritornare all’equilibrio fondamentale tra alimentazione e nutraceutica, proponendo un’alimentazione sana capace di dialogare con il territorio, con una lettura attenta del luogo in cui viviamo”. Dal menù: cardo spinoso delle Murge strapazzato alle uova con pane fritto, o cimamarelle (cime di senape) in guazzetto con pomodoro secco e purè di patate. Il rovescio della medaglia è che pochi a Ruvo capiscano questa cucina. “C’è un problema antropologico, e riguarda il senso della vergogna rispetto a ciò che deriva dalla nostra terra, che vede negli ingredienti locali un cibo povero, perché ci legano al ricordo della miseria -spiega Francesco Montaruli-: molti vorrebbero eliminare quel senso di vergogna, per avventurarsi nella modernità”.

Dino Lera nella cucina dell’Osteria di Lammari, in provincia di Lucca – © Luca Martinelli

Anche a Parma, che nel 2020 è Capitale italiana della cultura, ed è stata riconosciuta “Città creativa per la gastronomia Unesco”, modernità rischia di far rima con banalizzazione del cibo. Per questo, un gruppo di osti ha scelto di dar vita ad un’associazione: si chiama OstiNati, e riunisce quattordici locali del buon bere. Si sono presentati alla città il primo ottobre. Lavorano in rete da una decina d’anni, e insieme organizzano “Vignaioli in città”, la manifestazione che anticipa “Vini di vignaioli”, la fiera dedicata ai vini artigiani (nel 2019 s’è tenuta il 3 e 4 novembre, a Fornovo di Taro, PR). “Non vogliamo riproporre l’idea dell’oste di una volta, anche perché probabilmente in quelle osterie si beveva del vino allungato con l’acqua, c’era freddo, e non si mangiava nemmeno benissimo -racconta ad Altreconomia il presidente dell’associazione, Alessandro Marzocchi-: l’oste, oggi, è innanzitutto la persona che ti accoglie, e la sua proposta non è solo il vino, o il cibo, ma anche la musica, i libri sugli scaffali, le riviste a disposizione di chi entra nel locale da solo. È un attore culturale”. A tenere insieme gli OstiNati c’è una selezione maniacale di tutto ciò che fa il contenuto dell’osteria, comprese le chiacchiere dell’oste. “Abbiamo scelto di associarci perché questo ci permetterà di avere più risonanza, di valorizzare al meglio il lavoro che stiamo facendo sul territorio. Tra i fondatori ci sono quattro fuoriclasse -Tabarro, Osteria Oltrevino, Osteria Virgilio ed Enoteca Canistracci-, e altri ‘osti’ che stanno crescendo, molti dei quali giovani” racconta Marzocchi. Sono gli osti del futuro, animatori di comunità del cibo, quelli a cui guarda Slow Food. “Un soggetto che vive il proprio contesto ogni giorno e riesce con il contatto e la relazione a tenere vivo qualcosa che va al di là dell’acquisto del prodotto – dice Bolasco -. A lasciare il segno nei propri territori”. Anche nel 2020.

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