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Agricoltura a rischio: per Europa e Africa commercio o sviluppo?


La campagna “EuropAfrica-Terre Contadine
” il 17 febbraio a Roma mette a confronto Governo, Commissione Europea, organizzazioni contadine e società civile di Europa e Africa.

Dalla Wto agli accordi bilaterali APE, l’impatto degli accordi commerciali proposti in nome dello sviluppo.

Si sente dire spesso che i Paesi più poveri devono rafforzare le proprie capacità commerciali per uscire dalla povertà. Viene anche detto che il libero commercio è più efficace degli aiuti nel promuovere legami tra i popoli, sostenere lo sviluppo e contribuire alla pace.

Se i lavori della Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) finiscono più facilmente sotto i riflettori dei media e dell’opinione pubblica, ci sono altre trattative commerciali che si stanno svolgendo più discretamente, e delle quali la maggior parte dei cittadini resta all’oscuro. E’ il caso degli Accordi di Partenariato Economico (APE), accordi di libero commercio che l’Europa sta negoziando con le sue ex-colonie di Africa, Caraibi e Pacifico.

Dietro un’apparenza di “cooperazione per lo sviluppo” l’Unione Europea sta, di fatto, riproponendo attraverso gli APE la stesse ricette sostenute in ambito WTO. Ma queste ricette non funzionano, né in Africa né in Europa!

Liberalizzazione in agricoltura: le tesi dell’Unione Europea

Quando l’Unione Europea presenta le proprie politiche di libero commercio con i Paesi più poveri spiega che “l’aumento delle esportazione ed il miglioramento dell’efficacia del settore agricolo locale, che dovrà fronteggiare la riduzione delle protezioni tariffarie, aiuterà questi Paesi a svilupparsi”. Secondo l’UE “Un circolo virtuoso sarà generato dall’aumento dei redditi agricoli provocando un miglioramento dell’intera economia e l’aumento dell’occupazione”. E inoltre “l’apertura permetterà un abbassamento dei prezzi ‘alla fonte’ delle derrate alimentari favorendo le economie più povere che hanno budget di consumo alimentare più importanti”.

La realtà delle terre contadine: in Europa…

L’ingresso nella Wto e la partecipazione al processo di Barcellona ha già generato in molti Paesi europei importanti riduzioni delle superfici coltivate a cereali, soprattutto quelle irrigate, più produttive.

Le aziende agricole capaci di esportare, e quindi necessariamente con una forte capitalizzazione, offrono impieghi agricoli a contenuto tecnologico diverso o più alto rendendo i lavoratori del settore familiare poco adatti ad occupare eventuali disponibilità di lavoro Le aziende agricole “efficaci” non sono in grado di assorbire che quote assolutamente insignificanti di questa forza lavoro espulsa dal processo produttivo agricolo proprio della piccola azienda familiare, base del tessuto sociale rurale

E in Africa…

“L’agricoltura contadina, di autoconsumo ed approvvigionamento del commercio di prossimità saranno toccati duramente della rottura del tessuto sociale e delle attività economiche degli spazi 

rurali, dove loro completano sia il reddito necessario alla famiglia che il ciclo produttivo”. Lo prevede la Banca Mondiale, in un rapporto che risale al 2002 e che si occupa, tra l’altro, dell’impatto di questo tipo di accordi sull’agricoltura familiare nel Sud del mondo.

L’Europa è in vantaggio…

…nella produzione di cereali, di carne e di latte. La sovrapproduzione non incide troppo sui prezzi interni al consumatore, ma consente ai prodotti agricoli europei di essere molto competitivi sul mercato globale. E inoltre il consumo interno offre una grande tranquillità alle produzioni europee. L’80% della domanda dell’Unione di pomodori è soddisfatta sa Spagna e Olanda. Per le patate il 90% della domanda è coperta da produttori europei e per le olive conservate la domanda soddisfatta a livello Ue è il 55% del totale.

Ma si aprono nuovi spazi di mercato

Il mercato europeo è composto da circa 379 milioni di consumatori a forte potere d’acquisto pronti a pagare prezzi elevati per assicurarsi prodotti freschi di qualità nel periodo invernale, i cosiddetti “prodotti di controstagione”.

In Europa negli ultimi anni è molto aumentata la tendenza di consumare frutta e verdura durante i mesi nei quali la produzione europea non può fornirne. Questo apre uno spazio di forte competizione con alcuni Paesi mediterranei e africani. Ad esempio il 77% delle esportazioni totali di frutta della Giordania verso l’UE si realizza in giugno e luglio.

L’Europa (e l’Italia) rischiano molto…

Frutta e verdura, che rappresentano in media il 16% della produzione agricola dell’Unione, vengono abbastanza trascurate all’interno degli interventi della Politica Agricolo Comune (PAC). 14 gruppi di prodotti sono stati identificati come “sensibili” perché a rischio di concorrenza con i paesi mediterranei, ma non solo.

Parliamo della maggior parte dei prodotti presenti sulla tavola e nella campagna italiana: pomodori, cipolle, olio d’oliva, nocciole, arance, piccoli agrumi, limoni, uva da tavola, melone, fragole, fiori, patate, riso e vino.

I prodotti prevalentemente a rischio di concorrenza per le pratiche di liberalizzazione (frutta, verdura e olive) rappresentano più del 45% del valore aggiunto agricolo di 8 regioni italiane, 8 regioni spagnole, 8 regioni greche, 5 regioni olandesi, 4 regioni belghe, una regione portoghese e 1 regione francese

26 di queste 35 regioni si situano nella zona mediterranea ed i Paesi su cui l’impatto è più forte sono la Spagna, l’Italia e la Grecia

Che cosa sono gli APE

Dal 2002 l’Unione Europea sta negoziando con le sue ex-colonie dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, (definiti gruppo ACP) gli Accordi di Partnership Economica (Economic Partnership Agreements, o più brevemente APE), come tappe dell’Accordo di Cotonou, trattato di cooperazione politica ed economica che nel 2000 ha raccolto l’eredità della prima convenzione di cooperazione (Convenzione di Yaoundé) sottoscritta nel 1964 nel tentativo di compensare i danni allo sviluppo provocati dai lunghi anni del colonialismo, e proseguita con le quattro convenzioni di Lomé, l’ultima delle quali è scaduta il 29 febbraio 2000.

L’obiettivo degli APE è di stabilire “nuovi aggiustamenti negli scambi, compatibili con le regole della WTO, che rimuovano progressivamente le barriere agli scambi tra Unione Europea e Paesi ACP”, e che dovrebbero costruire “iniziative di integrazione regionale tra i Paesi ACP” e promuovere “sviluppo sostenibile contribuendo in quegli stessi Paesi allo sradicamento della povertà”.

Gli Accordi di Partnership Economica attualmente in discussione sono, in realtà accordi di libero scambio.

L’Unione Europea ha spinto perché questi accordi fossero fondati su una rigida interpretazione delle regole della WTO, prevedendo l’eliminazione di tutte le barriere commerciali su più del 90% degli scambi tra Europa e Paesi ACP, e nel più breve tempo possibile. Per di più l’Europa sta chiedendo di aprire nuovi negoziati in tema di investimenti, concorrenza, facilitazioni commerciali, commesse governative, protezione dei dati e servizi. I negoziati sui primi quattro tra questi temi in sono stati respinti in ambito WTO dai Paesi ACP per il loro impatto negativo sullo sviluppo.

E per l’Africa il libero mercato non si è tradotto in nuove opportunità

Le esportazioni dei Paesi più poveri sono ancora molto fragili. Una gran parte delle esportazioni dei Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico (il 60% del totale), sebbene questi siano sul mercato globale da moltissimi anni, si concentra su appena 9 prodotti, e la partecipazione dei Paesi ACP al commercio mondiale è caduta dal 3,4% del 1976 al 1,1% del 1999.

Gli accordi di Cotonou hanno consentito che il 97% dei prodotti che entrano nel mercato europeo da quei Paesi siano già esenti da tasse e quote d’importazione. La maggior parte sono prodotti agricoli che evitano il 95% delle misure di tassazione. Solo i prodotti come banane, carne di vitello e zucchero subiscono un trattamento di quote.

Ma i Paesi Acp non hanno mai potuto sfruttare a pieno queste nuove possibilità. Anzi, il principio della reciprocità sul quale si fondano questi accordi ha provocato, e ancor si più potrebbe con gli APE:

– l’apertura dei mercati di questi Paesi a forti tassi quantità produzioni europee,

– una caduta brutale delle entrate statali dei Paesi ACP legate alle tasse sulle importazioni. Molte spese pubbliche per la salute, l’acqua e l’istruzione sono state ridotte a causa della riduzione delle entrate pubbliche.

– un abbassamento delle protezioni sull’industria locale

– una diversificazione limitata degli scambi tra i Paesi Acp e i loro partners diversi dall’UE.

Un caso esemplare: l’Africa occidentale

Il 97% dei prodotti che provengono dall’ Unione monetaria dell’Africa Occidentale (UEMOA) entrano sul mercato europeo senza subire tassazioni sull’import.

La maggior parte fanno parte del settore agricolo ed evitano per il 95% le restrizioni legate alla politica agricola comune (PAC) per la loro natura tropicale.

L’UE si assicura, però, ben il 49,9%delle importazioni dei Paesi UEMOA, mentre l’UEMOA fornisce appena l’1% delle importazioni dell’Unione

Le agricolture per domani, in Europa come in Africa dovranno essere:

• Sistemiche

• Complesse

• Socialmente sostenibili, intensive in lavoro

• Ecologicamente durevoli

• Organizzate sui cicli naturali

• Che poggiano su circuiti corti nel tempo e nello spazio

• Che esercitano diritti collettivi sulle risorse: acqua, terra e agrobiodiversità

• Che godono di politiche agrarie autonome

• Territoriali

• Protezioni e sostegni

Le nostre proposte

• Gli APE e non possono prescindere da una forte politica di sviluppo rurale Il commercio ha senso solo se accompagnato o ancor meglio preceduto e sostenuto da una forte politica per lo sviluppo dei territori rurali, nel Nord come nel Sud del Mondo, promossa e finanziata sia dai governi locali sia dai fondi europei e globali.

• Il commercio può avvenire ed avere un influsso positivo sulle economie dei Paesi interessati soltanto se governato da regole chiare e uguali per tutti, dove per uguali non si intende “le stesse”, ma che offrano le stesse possibilità.

Per questo siamo convinti che:

• Il commercio può avvenire ed avere un influsso positivo sulle economie dei paesi interessati soltanto se governato da regole chiare e uguali per tutti, dove per uguali non si intende “le stesse”, ma che offrano le stesse possibilità.

• C’è la necessità di prevedere deroghe e tempi più lunghi per permettere ai Paesi più fragili di rafforzarsi e raggiungere il livello strutturale necessario per confrontarsi con l’UE. La “reciprocità” va intesa in questo senso;

• C’è bisogno di promuovere, innanzi tutto, il commercio Sud-Sud e di prossimità tra soggetti con pari potenzialità.

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