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Economia / Opinioni

Banche, dazi e debito pubblico. L’agenda italiana dopo le elezioni

Il sistema bancario nazionale è imbottito di titoli di Stato in misura maggiore rispetto a tutte le altre economie del Vecchio Continente. Cosa che impone una qualche “politica estera” sul debito. A questo si aggiunge il nodo delle politiche protezionistiche varate in giro per il mondo. Le criticità messe in fila nell’analisi di Alessandro Volpi

Le elezioni del prossimo marzo lasceranno sul tavolo due questioni non risolvibili sicuramente nel breve periodo e destinate a figurare tra i nodi di fondo del quadro economico italiano per molti anni futuri.

1) Come è noto, l’Italia ha un gigantesco debito pubblico ma forse è meno risaputo che è contraddistinta anche da un sistema bancario imbottito di titoli di Stato in misura assai maggiore rispetto a tutte le altre economie del Vecchio Continente. A dicembre del 2017, infatti, le banche italiane avevano nei propri bilanci titoli del debito pubblico italiano per quasi 380 miliardi di euro, mentre le banche tedesche avevano titoli pubblici del proprio Paese per meno di 300 miliardi, quelle spagnole per 189 miliardi, quelle dei Paesi Bassi per 75, quelle belghe per 61 e quelle irlandesi per 55. I sistemi bancari di tutti gli altri Paesi europei detenevano titoli pubblici per valori decisamente inferiori. Ciò significa che, nel caso italiano, il collocamento del debito pubblico non è solo la condizione necessaria per il mantenimento degli equilibri della finanza pubblica ma risulta determinante anche per la conservazione in vita delle principali banche presenti nel panorama nazionale. Se l’Europa decidesse di porre un limite alle possibilità per le banche di possedere titoli di Stato, partendo dal presupposto che esiste comunque il rischio di fallimento per gli Stati, al pari di quello che avviene per le società, le conseguenze per il nostro Paese sarebbero molto più gravi rispetto a quanto accadrebbe altrove. Ancora più pesante sarebbe per gli istituti di credito italiani l’eventuale decisione, presa sempre in sede europea e da tempo discussa, di costringerli a vendere i titoli pubblici già in loro possesso per rientrare entro un determinato limite, imposto appunto dal timore del fallimento dello stesso Stato italiano. In tal caso, oltre a procedere al collocamento dei nuovi titoli, sarebbe indispensabile trovare compratori per i titoli già in possesso delle banche che dovrebbero rintracciare, secondo stime recenti, 200-300 miliardi di euro sul mercato; uno stock complicato anche con il sostegno “benefico” della Banca centrale europea. Per tutte queste ragioni risulta fondamentale che i futuri governi adottino una “politica estera”, in particolare nei confronti della Germania, in grado di smontare i pericoli derivanti dalla maggiore onerosità del collocamento del debito italiano perché ciò produrrebbe una lievitazione delle spese pubbliche in conto interessi e il deterioramento dei bilanci bancari con conseguente riduzione del credito disponibile. In altre parole, il fatto di avere banche così dipendenti dalla tenuta del debito pubblica obbliga l’Italia ad essere un Paese molto credibile in termini di solvibilità e capace di non rappresentare una minaccia per l’euro, a partire dagli scenari politici.

2) L’Italia nei prossimi anni dovrà fare i conti con una nuova ondata di politiche protezionistiche varate in giro per il mondo. Dopo la stagione della globalizzazione multilaterale, che ha generato il ridimensionamento degli Stati nazionali a vantaggio dei mercati, e dopo la fase dei regionalismi, volti all’integrazione fra gli Stati nell’ambito di accordi bilaterali, con l’avvento della presidenza Trump sta tornando alla ribalta il recinto dei protezionismi. Tale protezionismo genererà conseguenze significative anche per l’economia italiana che sconterà difficoltà crescenti sia nel reperimento di mercati per le proprie produzioni sia nella realizzazione di filiere in cui le imprese italiane hanno avuto sempre un posto importante. Tra i primi settori interessati dai nuovi dazi figurano quello degli elettrodomestici, aggravati da incrementi di tasse del 20% per i prossimi tre anni, quello dei pannelli solari e alcune produzioni delle acciaierie, ma la lista delle “protezioni” rischia di allungarsi rapidamente. Peraltro, la scomparsa del mercato a stelle e strisce pone un problema rilevante perché si assomma a una preoccupante tendenza, presente in gran parte dell’Europa ormai da qualche anno, ad accumulare surplus significativi: l’avanzo esterno dell’area euro ha raggiunto i 400 miliardi con casi paradossali come quello dell’Olanda che da sola sfiora i volumi di surplus della Cina. Senza mercato statunitense e con troppi Paesi europei che esportano molto di più di quanto non importino, le criticità per la fragile ripresa dell’economia italiana, bisognosa di mercati di sbocco per la sua pronunciata dipendenza dalle esportazioni, possono essere davvero tante, non certamente risolvibili con promesse difficili da mantenere né con misure una tantum come la pur efficace rottamazione delle cartelle esattoriali, da cui è dipesa, miracolosamente, buona parte della tenuta dei conti pubblici di quest’anno.

Università di Pisa

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